Gens evangelica secondo Michael Reeves (III). Non senza integrità

 
 

[Questo articolo è stato già pubblicato il 21 settembre 2022. In occasione del periodo estivo, la redazione di Loci Communes ha scelto di ripubblicare articoli che ritiene rilevanti, alternandoli a nuovi. Buona lettura!]

Essere evangelici rimanda al cuore dell’evangelo imperniato sulla buona notizia di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, che ha creato e salvato il mondo invitando tutti a riconoscerlo. Nell’identità evangelica c’è un nucleo dottrinale imprescindibile. Gli evangelici sono coloro che fanno professione di fede con dei contenuti dottrinali, con dei sì (ad esempio: all’autorità suprema della Scrittura, alla sufficienza dell’opera di Cristo, ecc.) e dei no (ai politeismi antichi e nuovi, alla melassa pan-religiosa, al self-empowerment, ecc.). 

Nel suo Gospel People: a Call for Evangelical Integrity (2022), Michael Reeves mette bene in evidenza come essere evangelici non sia un profilo sentimentale o legato ad una sensibilità politica “conservatrice” o semplicemente associato ad una spiritualità “fervente”. Se non è anche dottrinale, non è fede evangelica e quindi coloro che si chiamano evangelici devono sapersi parte di una umanità definita dal loro credo. 

Detto questo, il sottotitolo del libro di Reeves evoca l’altro lato della medaglia: una chiamata all’integrità. La chiamata all’evangelo è una sfida all’integrità. Riferendosi alle parole dell’Apostolo Paolo in Filippesi 1,27, l’A. pone una doppia sfida: vivere una vita degna dell’evangelo in cui si è creduto e spendersi in unità per l’evangelo. Siamo davanti a due sfide che coinvolgono tutta la vita: dalla vita quotidiana, alla vita comunitaria, alle abitudini familiari, alla liturgia, alla vita lavorativa, all’impegno nelle attività evangelistiche. 

Guardando a Cristo, si può comprendere il significato del “comportarsi in modo degno dell’evangelo”, il quale ha umiliato se stesso. Pertanto, al cuore dell’integrità evangelica, che dovrebbe caratterizzare la gente del vangelo, c’è l’umiltà (p. 108) non la dimostrazione muscolare di potenza, né l’arroganza della saccenza. Il motto per il popolo evangelico è Giovanni 3,30: “bisogna che egli cresca e che io diminuisca”. Alcune versioni contemporanee dell’evangelicalismo offendono questa chiamata quando invocano il potere politico per affermare pezzi di visione evangelica o esaltano le “celebrità” per accodarsi alle personalità famose.

La chiamata all’integrità cambia notevolmente il nostro modo di vivere la fede. La nostra teologia, la nostra liturgia, la nostra programmazione tutto deve essere vissuto ai piedi della croce, con coraggio e con umiltà. Reeves non lo cita, ma l’Impegno di Città del Capo (2010), frutto del terzo congresso di Losanna per l’evangelizzazione del mondo, lo aveva sottolineato con forza. L’essere evangelico deve essere caratterizzato dall’integrità evangelica. In un mondo segnato da patologie della sconnessione e da contraddizioni laceranti, chi dice di essere evangelico deve essere animato da uno zelo per l’integrità, l’umiltà, la sobrietà, la corrispondenza tra quello che crede e ciò che vive.  

Associata all’umiltà, c’è un’altra sfida che l’A. pone in relazione all’integrità del popolo evangelico. Sempre seguendo Filippesi 1,27, l’Apostolo Paolo invita i suoi lettori a spendersi per l’evangelo in modo corale e unitario. Ovviamente il movimento evangelicale è differenziato, ma qui c’è di mezzo l’unità fondamentale nell’evangelo. Per Reeves, la vera unità può crescere e radicarsi solo e soltanto nel terreno fertile della verità condita dall’umiltà. Senza questo prerequisito il frutto è tribalismo, autoreferenzialità, isolamento, che portano solo ad un modo farisiaco di vivere la fede.

La sfida apostolica richiede umiltà e unità. Essere evangelici ieri e oggi significa cogliere questa sfida, affrontarla per la grazia di Dio. Non si è evangelici solo perché si porta l’etichetta, ma se si crede all’evangelo e si vive secondo l’evangelo.