Lavorare fedelmente sì, ma non basta per un “buon lavoro” cristiano

 
 

La parola lavoro può evocare una marea di emozioni. Quando pensiamo a come lavoriamo, possiamo associarvi la parola fedeltà? In altre parole, lavoriamo fedelmente? Se sì, cosa significa? Nel libro Faithful Work. In the Daily Grind with God and for Others, Downers Grove, IVP 2024, Ross Chapman e Ryan Tafilowski, docenti alla facoltà (evangelica) di teologia di Denver, cercano di rispondere a questa domanda, riorientando lo sguardo dei lettori sul lavoro.  


Il lavoro è importante per tutti, credenti compresi, ma questi ultimi non sempre lo vivono in modo sereno. Gli autori constatano che il 78% dei credenti praticanti (il loro contesto sono gli USA) ritengono che il lavoro “secolare” non sia utile alla testimonianza e non sia utile ai propositi di Dio rispetto al servizio ecclesiale (p.13). 


Abbiamo dunque un problema legato alla narrazione del lavoro che abbiamo in testa. È quindi necessario ripetere la storia del lavoro. C’è la creazione, così come spiegato in Genesi, in cui Dio è il primo lavoratore (p.24). Dio per primo pratica il lavoro rendendolo qualcosa di dignitoso e apprezzabile in sé. Per riflesso, sempre leggendo Genesi, la bontà del lavoro si manifesta in modo più esplicito in quello che viene chiamato “mandato culturale”, cioè di sottomettere e curare la terra. 


Il peccato, cioè la caduta, ha avuto implicazioni personali e cosmiche in quelle che possono essere chiamate le 5 relazioni chiave (p.25): 

  • Il rapporto con se stessi (psicologico)

  • Il rapporto con gli altri (sociale)

  • Il rapporto con il contesto (sistemico)

  • Il rapporto con la creazione (ecologico)

  • Il rapporto con Dio (teologico)


Questo implica che lavoriamo, come persone decadute, in un sistema segnato dal peccato. Certo, tutto è segnato dal peccato, ma non distrutto perché nella redenzione operata e compiuta dall’opera del Signore Gesù (incarnazione, passione, croce, resurrezione, ascensione e seconda venuta), ha un impatto altrettanto potente e cosmico. Alla luce del Signore Gesù tutto può essere redento: la nostra identità, le relazioni, il contesto, il rapporto con il creato. Con Cristo, la responsabilità del mandato culturale viene ripresa e rilanciata. Dio vuole che anche il nostro lavoro si allinei agli scopi di Dio (p.28). 


Ad ogni modo, la realtà in cui tutto si muove è segnata dalla difficoltà di comprendere la bontà del lavoro. Può sembrare che il lavoro che facciamo appaia infruttuoso, quindi perde di significato. Il nostro lavoro non si concretizza come speriamo, questo porta all’alienazione e al distacco. Oltretutto, il lavoro stanca, ci consuma e può facilmente diventare il nostro idolo che divora tutto il resto. 


Allora che fare? La ricetta degli autori è lodevole ma è monca. La loro ricetta è: investire nelle discipline spirituali, avere tempo con Dio, così da essere focalizzati su Dio, rastrellare la Scrittura e cercare il tesoro che è al suo interno, cioè “leggere la Bibbia per più che solo cercare informazioni” (p.50) e ovviamente avere una vita di preghiera in salute. 


È un volumetto molto utile per capire le questioni in gioco quando si parla del lavoro, ma è riduttivo pensare di affrontare le questioni sistemiche del lavoro, che giustamente vengono evidenziate nel libro, senza ripensarle e senza avere l’ambizione di mettere in pratica il mandato culturale. 


Gli Autori giustamente denunciano un dualismo tra lavoro “sacro” e lavoro “profano”, ma allo stesso tempo la loro soluzione non è “culturale” a tutto tondo, ma rimane ancora riduttivamente “spirituale”, dando come soluzione la preghiera, il servizio agli altri, la buona testimonianza. Tutto questo è necessario, ma non è sufficiente davanti al peso che il lavoro ha per Dio, se pensiamo che tutto il creato deve essere sottomesso sotto la sua autorità. 


Si avvicinano ad ampliare la prospettiva quando scrivono: “nella nostra cultura occidentale moderna […] il lavoro è il contesto in cui la chiesa testimonia Cristo come Signore su tutta la vita. Ma in tante chiese si sente parlare di tante missioni che coinvolgono bambini, adolescenti, giovani sposi, uomini, donne e single. Non mancano le “attività missionarie”, che nella maggior parte dei casi significano volontariato. Ma dov’è il lavoro? Dove sono gli sforzi per testimoniare Cristo e rendere visibile il suo regno presente e futuro nelle aule dei consigli di amministrazione, nelle scuole pubbliche o negli ospedali?” (p.64-65). 


A questa domanda però non viene data piena risposta. Il libro è dunque lodevole perché inquadra il problema teologico e reale del lavoro: la mancanza di contentezza, il senso di isolamento e di perdita dell’utilità dell’attività lavorativa. Eppure, non aiuta i lettori a pensare in modo sistemico il lavoro e ad aprire prospettive di riforma. Manca un’analisi del sistema del lavoro (norme economiche, leggi politiche, relazioni sindacali, ethos pubblico), non c’è consapevolezza della diversità dei contesti (il mondo del lavoro negli USA è diverso da quello in altre parti del mondo e il “modello” americano non è un modello per gli altri). Tutto o quasi è concentrato sugli atteggiamenti individuali della pietà del singolo lavoratore. Sembra che tutto il problema del lavoro si risolva con la sacerdotalità del lavoro (ma manca l’insistenza sulle responsabilità regali e profetiche adattate in modo culturalmente rilevante). 

È ancora un po’ troppo poco. Pur comprendendo questo, la cultura evangelica del “Buon lavoro”ha bisogno d’altro.