Psichiatria e cura pastorale (II). “Uso farmaci psicotropi…”, e ora?

 
 

Un membro della tua chiesa ti racconta di essere sotto cura con Tegretol, Zoloft e Abilify per una diagnosi di disordine bipolare. Secondo lui è arrivato il momento di dire basta e vuole un tuo consiglio per tornare dallo psichiatra per rinunciare alle sue cure. Per dirla tutta, è giunto alla convinzione che, con l’aiuto del Signore, dovrebbe essere in grado di affrontare la sua vita senza farmaci. Come procederesti? Cosa consiglieresti?


Viviamo in un’epoca dove la maggior parte dei problemi dell’esistenza vengono attribuiti a disfunzioni neurofisiologiche. Nella comunità psichiatrica e nella cultura di massa, i farmaci psicotropi sono ormai percepiti come la terapia d’elezione e sono diventati di uso comune, soprattutto nella popolazione più giovane. La domanda per i credenti è: una vita caratterizzata da una fede robusta e dal pentimento rende le cure farmacologiche inutili? Oppure bisogna lasciare alla farmacologia totale carta bianca sulla cura dei disordini mentali?


Il consulente biblico presso il Christian Counseling & Educational Foundation (CCEF), Michael Emlet, nella seconda parte del volume Descriptions and Prescriptions: A Biblical Perspective on Psychiatric Diagnoses & Medications, Greensboro, New Growth Press 2017, affronta queste domande complesse procedendo con 3 riflessioni:


1. È necessario avere una conoscenza di base delle sostanze psicoattive (o psicotrope)
I farmaci psicoattivi sono sostante chimiche che entrando in contatto con il cervello cambiano l’umore, i pensieri, le emozioni ed il comportamento di chi li assume. Di questi, per citarne alcuni, fanno parte gli antidepressivi, gli stabilizzatori dell’umore, gli psicostimolanti, gli antipsicotici, gli ansiolitici ecc. Sebbene queste categorie possano essere sconosciute ai molti, i nomi dello Xanax, del Prozac, del Valium e del Litio sono ormai di pubblico dominio. La chiesa che è chiamata a confrontarsi con la realtà che la circonda non può rimanere al di fuori di queste conoscenze. Sebbene frequentemente impreparata, essa ha la responsabilità di conoscere e vagliare ogni cosa (1 Tess 5,21) per essere pronta a guidare ed indirizzare.


2. È necessario comprendere il meccanismo e la realtà dell’efficacia delle sostanze psicoattive
Il pensiero comune che accompagna l’utilizzo di questi farmaci è la convinzione che essi correggano uno squilibro chimico. Questo modo di intendere le sostanze psicoattive, come afferma Emlet, è certamente il frutto di una tendenza ad una psichiatria biologicamente-orientata e ad un intenso marketing farmacologico. Tuttavia, ad oggi, la letteratura scientifica non ha ancora avuto la capacità di dimostrare le affermazioni che sono alla base di questa teoria dello squilibrio. È impossibile con gli strumenti che la scienza possiede avere un valore misurabile di ciò che accade a livello dei neurotrasmettitori prima e dopo l’utilizzo del farmaco. Inoltre coesiste l’impossibilità di mostrare, in laboratorio, come il tessuto neuronale (vivo) possa risponde agli stimoli farmacologici. Statistica alla mano, l’autore mostra come, ad esempio per la depressione, ciò che condiziona profondamente il risultato di un trattamento non è l’ausilio farmacologico ma la tipologia del trattamento (counselling, psicoterapie e farmaci). Queste evidenze, ci dice l’autore, non screditano l’uso del farmaco psicoattivo, ma ne decentrano l’importanza guidando la cura verso un approccio integrato e multidisciplinare.


3. È necessario un approccio biblicamente saggio alla realtà delle sostanze psicoattive
“E’ lecito usare o non usare farmaci psicotropi?” La risposta di Emlet è: “Dipende”. Muoversi in questo tema, ci dice l’autore, è un esercizio di equilibrismo nella saggezza provveduta da Dio nelle Scritture. Gli argomenti in gioco non permettono risposte semplici. Quando parliamo di farmaci parliamo di sofferenza, del rischio dell’idolatria, delle ragioni del cuore, ma anche della grazia comune. Il regno di Dio è venuto per portare libertà dalla sofferenza (Atti 10,38; Ap 21,4), perciò il desiderio di essere liberati da essa, anche attraverso l’uso di psicofarmaci, è un desiderio lecito. Tuttavia, la sofferenza è anche lo strumento che Dio usa per modellarci e renderci ad immagine del Salvatore Gesù Cristo (Fil 3,10-11; Rom 8,16-17; Col 1,24). In altre parole, Dio è all’opera nella sofferenza e, mentre ci adoperiamo per trovarne un’uscita seppur farmacologica, ci adoperiamo per trovare in essa la perseveranza, la continua fiducia nell’amore del Padre, la speranza e la gratitudine. In molti casi, troppa sofferenza potrebbe essere un azzardo alla crescita spirituale, perciò potrebbe essere necessario non procrastinare eccessivamente un aiuto farmacologico. Tuttavia, troppa poca sofferenza potrebbe essere comunque un rischio per la crescita dei figli di Dio (Atti 17,28). I farmaci psicoattivi sono un dono di Dio attraverso la grazia comune (Isaia 41,10) ma come suoi figli la chiesa è chiamata a riconoscere l’idolatria che affida ad essi ciò che appartiene al Dio trino: la capacità di cambiare i cuori.


In conclusione, Emlet chiama la chiesa evangelica a riappropriarsi della saggezza promessa da Dio ai suoi figli. Con o senza farmaci, l’autore ci incoraggia a sfuggire alle risposte facili ed ai ragionamenti unidirezionali. La saggezza, manifestatasi nella persona di Gesù Cristo, invita a focalizzare le scelte sulla vocazione cristiana ad amare Dio ed il nostro prossimo. In sintesi: non faciloni e non chiusi alle benedizioni della grazia comune, ma fondati sulle verità della Scrittura, per un aiuto vero e profondo alla gloria di Dio.


Della stessa serie:
“Psichiatria e cura pastorale (I). Diagnosi psichiatrica, e ora?” (9/12/2024)