Una “nuova” filosofia del lavoro?

 
 

“Il datore di lavoro risponde per i danni alla salute prodotti sul dipendente da un ambiente lavorativo troppo stressante”. Così scrive Giampiero Falasca su Il Sole 24 Ore (27/2/2024) in cui viene descritta la diatriba tra un lavoratore e il suo datore di lavoro per danni psico-fisici causati da ambiente stressante e pesante. Il rapporto tra superiori e sottoposti è sempre una relazione caratterizzata da complicazioni. Sono tante le scuole di pensiero sulla gestione delle risorse umane in azienda e sulla leadership. Tra queste risorse c’è il libro di Massimiliano Pappalardo, Filosofia del lavoro: l’impresa del pensiero nella gestione manageriale, Milano, Effatà Editrice 2023.

Pappalardo invita a coltivare e ad accendere la motivazione nei collaboratori, intesa come “elemento che permette all’uomo di sottrarsi al giogo passivo della volontà altrui e di essere artefice di ciò che fa dandosi lui stesso degli obiettivi” in quanto “espressione della propria libertà” (p.15). Questo porta con sé una maggiore gratificazione e considerazione. Il libro vuole essere uno strumento per il management per “comprendere, assecondare, sviluppare, rafforzare e liberare pienamente le qualità dei singoli” (p. 16). Infatti, il lavoro è visto come quell’attività attraverso cui “l’esercizio di una professione è quindi innanzitutto un esercizio di responsabilità, ossia un tentativo di rispondere in prima persona ai bisogni interiori ed esteriori nel contesto in cui si vive” (p.27). 

Ciò significa che la disoccupazione o il sostegno sganciato dall’attività lavorativa “feriscono in profondità la natura propria dell’uomo” (p.27). Il lavoro si fa in relazione, così ogni autorità in azienda ha il compito non solo di dirigere ma di far crescere. Infatti, l’autorità ha un’accezione positiva se “il comportamento del manager leader è pertanto un vero e proprio atto educativo, dal latino e-ducere (condurre fuori), un autorizzare l’altro ad essere pienamente ciò che è” (p.55), attraverso la delega e la motivazione. 

Una delega ben compiuta ha benefici per i leader perché permette di dedicarsi ad altro e dona senso di realizzazione nell’esercizio di autorità; per i collaboratori c’è un senso di realizzazione nella propria mansione, gioia nell’accrescimento del proprio contributo; per le aziende una maggiore efficienza e organizzazione del lavoro (p. 61). 

Quella di Pappalardo è una prospettiva interessante. Pur apprezzandone il tentativo di rendere il lavoro più sostenibile e “umano” con un nuovo modo di guardare al lavoro per rispondere ai trend del momento, ci sono delle fragilità. Nella sua analisi, essa non guarda al lavoro nella sua interezza. Trattandosi di uno strumento per la gestione e lo sviluppo delle risorse umane, non dà abbastanza importanza ad altri aspetti del lavoro. Sicuramente è giusto “umanizzare” il lavoro investendo sulle relazioni e sulla qualità dell’ambiente lavorativo, nel ripensare al ruolo dei manager e dando importanza a tutti in azienda, ma non è l’unico aspetto da tenere presente. 

Potremmo dire che la sua analisi è schiacciata alla sola prospettiva esistenziale del lavoro, tralasciando quella normativa, cioè i contratti e le norme che dovrebbero rendere il lavoro rispettoso della sua dignità, anche in relazione alla previdenza e alla sicurezza sul lavoro, oltre che la prospettiva situazionale, che cambia a seconda dei casi, in particolar modo il contesto culturale che plasma sia sottoposti che dirigenti. 

Tra l’altro non sono solo le relazioni orizzontali o verticali che devono essere riviste, ma che ne è della bontà del lavoro? Del suo fine? D'accordo che ogni lavoro permette in qualche modo la realizzazione di sè, ma lo scopo del lavoro è davvero limitato al soddisfacimento e al benessere del lavoratore? Il lavoro di ognuno di noi è un pezzo di un puzzle più grande, non circoscritto alla sola attività o mansione. Dal lavoro di un singolo tanti possono beneficiarne (colleghi, famiglia, azienda, ambiente, utenti, società).

Infine, ma non per ultimo, quella di Pappalardo sembra essere una prospettiva antropologica troppo ottimista che, cristianamente parlando, non tiene in dovuto conto le storture del peccato che hanno segnato tutto e tutti.

Il libro offre spunti utili. Pur rifacendosi alla sussidiarietà promossa dal pensiero cattolico romano, non si rende conto che proprio quel cattolicesimo romano ha segnato la cultura italiana, quindi anche quella del lavoro, lasciando in eredità un certo senso di deresponsabilizzazione. La ricetta umanista promossa da Pappalardo tocca l’ambito delle motivazioni personali e della relazioni sul lavoro, ma non si incarica di ripensare l’universo del lavoro in modo più completo e profondo.

Una filosofia del lavoro può essere veramente “nuova” solo se si guarda al lavoro nella sua interezza, ricoprendo il suo scopo (per cosa e per chi e buono e utile il mio lavoro?), praticandolo in condizioni dignitose e giuste (salario, orari, previdenza), e farlo in reti ci collaborazione (collaboratori, colleghi, superiori, sottoposti), come ad esempio tenta di fare la prospettiva biblica suggerita nel fascicolo “Buon Lavoro”, Studi di teologia – Suppl.N. 18 (2020).