Appunti di storia dell’AEI (II): Il Novecento evangelico e i passi verso la costituzione

 
 

N.B. Quest’anno ricorrono i 50 anni dalla costituzione dell’Alleanza Evangelica Italiana (1974-2024). In questa serie di articoli verranno tratteggiati alcuni appunti in vista di una storia dell’AEI, ancora tutta da scrivere. Si tratta di tracce e spunti per fare memoria.

Il rilancio novecentesco del progetto di un’Alleanza Evangelica trovava una situazione diversa sul piano teologico. Era cambiato il panorama interno ed esterno. Per quanto riguarda il mondo evangelico era, in primo luogo, iniziata l’era del pentecostalismo. Dai risvegli del Galles d’inizio Novecento al risveglio di Azusa Street (1906), il movimento pentecostale aveva dato voce ad una spiritualità dell’esperienza dello Spirito Santo nella vita del cristiano che si evidenziava nel dono delle lingue. Si trattava dell’inizio di un nuovo capitolo nella storia dell’evangelismo che avrebbe profondamente influenzato la storia successiva. Erede del movimento di santità, il movimento pentecostale immise nel corpo evangelico una rinnovata enfasi sulla realtà dell’opera dello Spirito Santo manifestata nella pienezza della vita cristiana e nella fruizione tangibile della sua presenza. Questo movimento fu da subito trasversale alle chiese e quindi portatore di un afflato che non poteva essere contenuto nei contenitori rigidi delle denominazioni evangeliche esistenti. Pur suscitando reazioni diversificate nel più ampio movimento evangelico, il pentecostalismo fu via via accettato come un autentico movimento di risveglio che s’inseriva nella tradizione dei risvegli già vissuti nei secoli precedenti.

Un’altra novità sulla scena evangelica fu il movimento fondamentalista d’inizio Novecento. Sotto l’incalzare della rilettura liberale dell’evangelo, ampi settori del protestantesimo conservatore si aggregarono per ribadire i capisaldi fondamentali della fede cristiana che erano messi in discussione nella teologia sedicente “scientifica”: 1. l’ispirazione e l’inerranza delle Scritture; 2. la divinità di Gesù Cristo; 3. la sua nascita verginale; 4. la sua espiazione vicaria; 5. la sua resurrezione ed il suo ritorno. Queste preoccupazioni erano assai diffuse e caratterizzavano un considerevole numero di chiese negli Stati Uniti d’America, ma anche altrove. I cinque argomenti appena accennati furono divulgati attraverso una serie di 12 opuscoli, The Fundamentals, appunto, che uscirono tra il 1909 e il 1915. Anche in questo caso, si trattava di un movimento trasversale alle chiese e quindi portatore di un suo respiro unitario. Mentre operava una separazione dalle versioni liberali dell’evangelo che erano anti-soprannaturali e scettiche sul lascito dottrinale del cristianesimo classico, incoraggiava la creazione di un fronte intra-evangelico unito sulle “fondamenta” dell’evangelo stesso.

Contemporaneamente ai movimenti pentecostale e fondamentalista, per molti versi intrecciati tra loro, emergeva quel movimento ecumenico che avrebbe trovato nella conferenza missionaria di Edimburgo del 1910 una piattaforma significativa. Qui l’unità veniva declinata nel senso della missione comune. Eppure, sia il pentecostalismo che il fondamentalismo non trovarono nello slancio ecumenico espresso ad Edimburgo l’alveo della loro spinta unitaria. Perché?

Il pentecostalismo aveva posto l’accento sul fatto che l’unità cristiana non poteva essere basata sulla diplomazia dottrinale o su accordi scritti su carta soltanto, ma abbisognava di un vissuto cristiano che riflettesse la realtà di vite cambiate dallo Spirito Santo. Non era possibile un’unità tra coloro che non vivevano la vita cristiana realmente, in modo naturale e soprannaturale allo stesso tempo. Il movimento ecumenico nato ad Edimburgo dava già i segni di un’accettazione del cristianesimo “nominale” basato su una tradizione più che sull’esperienza della vita cristiana. Dal canto suo, il fondamentalismo intravedeva in Edimburgo i segni della penetrazione del liberalismo teologico nel mondo protestante, anche in quello ancora animato dallo zelo per la missione. Senza voler spaccare il capello in quattro su ogni questione dottrinale, come si poteva pensare alla missione comune in assenza di una comune professione dell’evangelo biblico imperniato sul riconoscimento della Parola di Dio scritta da ricevere integralmente come tale? Lo scetticismo evangelico verso Edimburgo non nasceva quindi da un separatismo spinto, ma da motivazioni non superficiali che, a loro modo, erano interpreti di una visione di unità diversa rispetto a quella abbozzata alla conferenza del 1910.

L’evoluzione dell’ecumenismo di Edimburgo portò alla creazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) ad Amsterdam nel 1948 dove le chiese protestanti “storiche” trovarono una forma federativa con le chiese ortodosse d’Oriente. L’unità veniva fondata sul “battesimo”, quindi su un ordinamento amministrato dalle chiese che poteva dar luogo al cristianesimo ricevuto per tradizione e professato solo “nominalmente”. D’altro canto, si sarebbero espresse nel CEC le tendenze estreme del liberalismo teologico che gli evangelici d’inizio Novecento avevano già intravisto ad Edimburgo. Una piattaforma teologica “pluralista” creò lo spazio per la compresenza di comprensioni dell’evangelo che spaziavano dal tradizionalismo sacramentalista orientale alle ultime mode della teologia protestante post-liberale, difficilmente compatibili con il profilo biblico della fede evangelica.

Per questa serie di ragioni, importanti settori dell’evangelismo mondiale non videro nella traiettoria Edimburgo-Amsterdam, che aveva dato luogo alla nascita del CEC, la piattaforma adeguata per esprimere una visione d’unità evangelica basata sul comune riconoscimento dei cristiani “nati di nuovo” e legata all’eredità tradizionale della fede evangelica. Così, nel 1951 venne fondata l’Alleanza Evangelica Mondiale che, collegandosi alla storia e all’idealità dell’Alleanza Evangelica del 1846, volle offrire la possibilità per questo vissuto evangelico di unità di trovare un organismo di collegamento dal profilo mondiale. Negli anni successivi, varie Alleanze Evangeliche nazionali furono create e collegate su base continentale e mondiale.

Così, dopo che il cattolicesimo romano celebrò il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) e rilanciò il suo progetto unitario, la cristianità vide tre poli intorno a quali si confrontavano diversi progetti di unità. Il cattolicesimo elasticizzava la sua visione ecumenica mantenendo però le prerogative del papato e della sua comprensione della chiesa. L’ecumenismo del CEC dava risalto al battesimo come base dell’unità e creava uno spazio di pluralismo non assimilabile all’integrità evangelica. L’Alleanza Evangelica si faceva interprete delle istanze bibliche dell’evangelo e della necessità che i “nati di nuovo” trovassero forme di collaborazione, pur nel rispetto delle appartenenze denominazionali. 

La “risorgenza evangelica” e la nascita dell’Alleanza Evangelica Italiana
In Italia gli echi di queste dinamiche mondiali, seppur attutiti e resi più flebili per la situazione di minoranza che l’evangelismo viveva, non tardarono a manifestarsi e a trovare forme di corrispondenza. Il progetto di unità di cui si faceva interprete il CEC trovò nella convocazione del secondo Congresso evangelico nel 1965 un’occasione di rilancio. Due anni dopo, nel 1967, nasceva la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) quale struttura federale di chiese che aggregò gran parte del protestantesimo storico. Al di là della particolarità istituzionale della FCEI (una federazione di chiese, appunto), la base teologica ed i riferimenti ideali erano molto vicini, se non del tutto assimilabili, a quelli del CEC. Oltre a questioni di ordine istituzionale, furono questi i motivi sostanziali che spinsero molti esponenti dell’evangelismo “conservatore” o “biblico” a non aderire alla FCEI. Si comprese che l’“apertura” teologica alle derivazioni del protestantesimo moderno non fosse una sufficiente garanzia per la tenuta evangelica dell’unità.

Nel frattempo, il mondo evangelico internazionale sollecitava quello italiano a non rimanere chiuso in sé stesso, ma a partecipare alla “risorgenza” evangelica che si stava verificando dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale. Nel 1966 a Berlino si tenne un importante congresso sulla missione che rilanciava la necessità di uno sforzo evangelico all’insegna della cooperazione, una sorta di “alleanza” fluida sul piano istituzionale ma densa sul piano dei convincimenti evangelici di fondo. Cominciava ad emergere la figura di Billy Graham (1918-2018), evangelista nordamericano, che, insieme a quella del britannico John Stott (1921-2011), avrebbe avuto anche un ruolo decisivo nel collegare le varie componenti dell’evangelicalismo mondiale.

Fu proprio in occasione del Congresso europeo sull’evangelizzazione che Graham convocò ad Amsterdam nel 1971 che un si verificò un fatto decisivo. La nutrita delegazione italiana formata da pastori ed evangelisti di chiese pentecostali e libere apprezzò la bontà dello stare insieme non solo in termini di comunione fraterna, ma anche in quelli di una più solida collaborazione. Nelle parole di Elio Milazzo, primo presidente dell’Alleanza Evangelica Italiana, “ad Amsterdam fu espresso il desiderio di dare continuità ad un rapporto che altrimenti sarebbe durato solo pochi giorni”.[1] Il lavoro di raccordo tra i partecipanti al Congresso di Amsterdam diede luogo nel novembre 1974 alla costituzione del’Alleanza Evangelica Italiana avente “una fisionomia ben precisa”. Sempre nelle parole di Milazzo, l’Alleanza si riconobbe in “un fondamento di fede che riferendosi ai punti essenziali della fede cristiana, dà ai soci la garanzia di avere in comune una posizione di fedeltà e di unità nei confronti della verità rivelata. Poi un’indicazione degli obbiettivi relativi all’attività pratica: comunione nell’evangelo, difesa dell’evangelo, progresso dell’evangelo”. L'Alleanza Evangelica non considerava l'unità un bene in sé, ma piuttosto uno strumento in vista dell'evangelizzazione, della comunione, della preghiera e della cooperazione. 

L’Alleanza riprese i vecchi ideali ottocenteschi riguardanti la visione “risvegliata” della fede evangelica, ancor più accentuati dall’influsso del movimento pentecostale, ma agganciandola alla necessità di rimanere fedeli alla fede trasmessa una volta e per sempre ai santi, resistendo alle tendenze volte a liquefarla. Intorno a questa accezione di unità evangelica il sogno dell’Alleanza Evangelica iniziò a coagularsi, dovendo sempre fare i conti con i potenti residui d’individualismo e di protagonismo che hanno sempre contraddistinto l’evangelismo italiano.

(continua) 

Della stessa serie:
“Appunti di storia dell’AEI (I): i primi tentativi ottocenteschi” (28/3/2024)


[1] G. Moretti, “Intervista ai Presidenti Bensi e Milazzo”, Idea IV/2 (1979) pp. 6-12.