Bavinckiana (V). Scusi, qual è il nome del suo Dio?

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Yahweh, il creatore dei Cieli e della Terra, governatore dell’Universo e redentore del Mondo, è “Il Dio attivo e vivente” del quale Herman Bavinck (1854-1921) continua a parlare introducendo la seconda parte del secondo volume della sua Dogmatica (tradotto in italiano da Alfa&Omega con il titolo La dottrina di Dio e della creazione). Il pastore e teologo olandese articola il discorso soffermandosi inizialmente sui nomi di Dio, rivelatori e descrittori del suo carattere, per poi affrontare sistematicamente i suoi attributi incomunicabili, cioè le qualità proprie dell’Essere divino non trasmettibili all’essere umano (indipendenza, immutabilità, infinità, unità e semplicità), e gli attributi comunicabili, caratteristiche divine che Egli ha volontariamente e saggiamente scelto di condividere, rendendole parte integrante dell’essere umano (p. es. gli attributi intellettuali, morali e quelli connessi con la sovranità). La conclusione della seconda parte è dedicata all’analisi biblica estorico-teologica del dogma della Trinità, verità portante della Bibbia e propulsatrice della fede cristiana. 

In questo articolo, seppur in maniera esigua e limitata, ci soffermeremo sui nomi biblici di Dio illustrando i pensieri e i ragionamenti di Bavinck. Quest’ultimi non sono né auto-referenziali né speculativi, ma si basano su una limpida e profonda conoscenza della storia del pensiero cristiano e della Parola di Dio: “Tutto ciò che possiamo imparare da Dio dalla sua rivelazione è designato dal suo Nome nelle Scritture” (p. 120). Bavinck riconosce che c’è uno stretto legame tra “il nome e chi lo porta” anche se “quella connessione era molto importante all’inizio, quando i nomi avevano ancora un significato trasparente e rivelavano veramente l’identità di una persona o di una cosa” (p. 120). Basti pensare alla ricorrenza biblica di informare il lettore del significato del nome di un dato personaggio, descrittore del suo carattere (p. es. Giacobbe che significa “prendere per il tallone, ingannare”) e/o della missione assegnatagli da Dio (p. es. il nome di Gesù, “Yahweh salva”). 

Se da un lato gli uomini e le cose ricevono i propri nomi da terzi, dall’altra, la straordinarietà e l’eccezionalità del Signore risiede proprio nel fatto che non siamo noi a dare “un nome a Dio, ma è Dio che denomina se stesso” e così facendo rivela i suoi attributi “nel mondo e al mondo” (p.121). Egli si è fatto conoscere al popolo d’Israele comunicandogli che il suo nome doveva, e deve continuare ad essere, “invocato, tramandato nella storia, magnificato, conosciuto, temuto, esaltato, atteso, santificato” (p. 122). Il nome del Creatore del mondo raggiunge l’apice rivelativo nel Nuovo Testamento perché il Logos “l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere” (Gv. 1:18). Chi ha visto il Figlio, la Parola di Dio incarnata, ha visto il Padre (Gv. 14:9) e “di conseguenza, il nome di Gesù Cristo è garanzia della verità della nostra conoscenza di Dio, e di tutti i benefici associati” siccome “ogni salvezza per l’umanità è racchiusa nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (p.122).  

Bavinck sottolinea che il nome con il quale Dio ha deciso di farsi conoscere non è arbitrario ma è rivelatore “del suo onore, della sua fama, delle sue eccellenze, della sua intera rivelazione, del suo stesso essere” (p. 123). Ecco allora che si comprende più chiaramente il comandamento di “non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano” (Es. 20:7) perché “nelle Scritture, «essere» e «essere chiamati» sono due facce della stessa medaglia: Dio è ciò che chiama se stesso, e chiama se stesso ciò che è” (p. 123). 

Gli antropomorfismi (fisici, emotivi e relazionali) sono indispensabili per poter “nominare l’Innominabile” (p. 130). Infatti, come potrebbe il Dio infinito e al di sopra di ogni cosa rapportarsi con le sue fragili e finite creature se non utilizzando il loro linguaggio limitato e circoscritto? È in questo che si dimostra la grandezza e bontà di Dio: Egli “scende al livello del finito e diviene come le sue creature” (p. 130). Riprendendo Calvino, potremmo affermare che “Dio, per così dire, balbetta con noi come le balie fanno con i piccoli bambini per adeguarsi a loro” e quindi “queste espressioni non espongono dunque una dottrina esatta sulla realtà di Dio, ma ce ne danno una conoscenza adatta alla semplicità del nostro spirito” (Istituzioni, 1.13.1). Bavinck motiva il linguaggio antropomorfo osservando che la creazione “anche se infinitamente remota rispetto a Dio, è pur sempre opera di Dio e a lui connessa […] fin dall’inizio progettata per rivelare Dio” (pp. 130-131). Quindi, è decisamente logico utilizzare i termini della creazione per nominare il carattere e le azioni di Dio, altrimenti l’unica alternativa plausibile sarebbe “il silenzio assoluto” (p. 132).

Non ci resta che inginocchiarci dinnanzi all’“IO SONO” (Es. 3:14) e riconoscere, ancora una volta, che è solamente ed unicamente per una sua volontaria decisione che oggi i figli di Dio, per mezzo di Gesù Cristo, possono accostarsi a lui nominandolo attraverso lo Spirito Santo: “Abba! Padre!” (Ro. 8:15).