Caravaggio 2025. La lampada alzata per vedere Cristo?
“A Roma c’è Michelangelo da Caravaggio che fa cose meravigliose”, scriveva così il primo biografo di Caravaggio, Karel van Mander, nel 1604. In poco tempo la sua fama crebbe fino ad essere considerato come egregius in Urbe pictor già dai suoi contemporanei.
Oggi, nel 2025, in un esplicito richiamo all’anno santo indetto dalla chiesa cattolica, la mostra Caravaggio 2025 curata da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon presso le Gallerie Nazionali di Arte Antica in Palazzo Barberini, propone un originale percorso espositivo ponendosi come importante occasione di studio, ricerca e condivisione di quelle “cose meravigliose” dell’artista vero e umano che, nelle sale del palazzo romano, sembrano svelarsi agli occhi dello spettatore.
Sarebbero molteplici le letture e gli approfondimenti che si potrebbero fare per un progetto simile, ma ciò che ha colpito la mia attenzione è la ricerca spirituale dello stesso artista visibile nei suoi autoritratti all’interno di alcuni dipinti, che l’esposizione offre al visitatore in un crescendo nel passaggio da una sala all’altra, dalle opere giovanili fino a quelle della sua maturità.
I biografi raccontano che all’inizio della sua carriera, Caravaggio non poteva permettersi modelli e dunque il suo farsi protagonista nelle storie era probabilmente dettato da una necessità; ma poi questo suo mettersi in scena diventa consapevole. Caravaggio si coinvolge nelle scene che dipinge e la disposizione dei dipinti nei quali ritroviamo il suo volto all’interno della mostra sembra suggerire qualcosa.
Lo ritroviamo nella prima sala nel suo autoritrarsi nelle vesti di Bacchino malato, dipinto che si pone all’origine di una serie di opere in cui Caravaggio si esercita nella rappresentazione del proprio volto, probabilmente davanti a uno specchio.
Fattezze simili sono riconoscibili nel suonatore di cornetto posto in secondo piano in Concerto, opera la cui comprensione va ricercata nel contenuto musicale all’interno del libro tenuto in mano dal cantore di spalle, il quale riprende l’intonazione musicale della seconda parte del sonetto di Iacopo Sannazzaro, “Icaro cadde qui, queste onde il sanno”, la cui parabola riflette sulla necessità di elevare l’anima purificandola dalle passioni.
L’artista impersonifica San Francesco in uno dei suoi primi capolavori a tema sacro dove il santo è raffigurato in deliquio sostenuto da un angelo dopo aver ricevuto le stimmate; la dimensione interiore dell’esperienza di Francesco sembra essere modellata sull’agonia di Cristo nell’orto del Getsemani che include l’apparizione di un angelo per rafforzarlo.
Nella Cattura di Cristo, nonostante il fulcro narrativo sia costituito dal bacio di Giuda, non si può non notare la figura all’estrema destra mentre alza la lampada quasi come se fosse alla ricerca del vero; Caravaggio qui svolge un ruolo attivo prestando il suo volto alla figura che la critica ha inteso essere Diogene, interpretato come simbolo dell’uomo alla ricerca di Dio. Il Davide e Golia mette in luce una profonda esigenza di espiazione, se consideriamo che Caravaggio volle ritrarre se stesso nel volto del gigante, fatto che lascia ipotizzare che la tela sia da porre in relazione con la condanna alla pena capitale e al conseguente auspicio di grazia da parte di Paolo V.
Infine, ritroviamo l’ultimo autoritratto dell’artista nel Martirio di Sant’Orsola, nel personaggio immediatamente dietro la giovane martire con la quale sembra condividere quasi lo stesso pallore; si direbbe essere il suo testamento spirituale, la sua ricerca volta a cercare di comprendere fino all’ultimo cosa succede all’uomo al termine della sua esistenza.
Le scelte operate attraverso questi suoi autoritratti ci parlano della sua ansia di salvezza ed è interessante osservare il fatto che il Merisi non si sia ritratto nell’Incredulità di san Tommaso palesando la sua mancanza di fede.
Una spiritualità inquieta, quella di Caravaggio, difficile da mettere a fuoco e per la quale molti studiosi si interrogano ancora oggi. Quel “pittore maledetto” così come la storia lo ha sempre visto, oggi viene rivalutato nel suo tempo e nel suo contesto. Gli studiosi tentano di ricostruire quale fosse l’atteggiamento dell’artista nei confronti delle istituzioni religiose a lui contemporanee ritracciandolo nelle fonti e nei documenti, considerando che Caravaggio non ha lasciato scritti al riguardo; alcuni documenti attestano la vicinanza di Caravaggio alle pratiche religiose, d’altronde era cresciuto in una famiglia cattolica molto legata alle consuetudini della chiesa.
Il suo nome compare nella cosiddetta “Lista delle Quarantore”, dalla quale risulta che il 18 ottobre 1597 Michelangelo partecipò alla veglia del Santissimo Sacramento promossa dalla Compagnia dei Virtuosi al Pantheon in occasione della festa di San Luca, patrono dei pittori.
Ancora, il 6 giugno 1606 il parroco della parrocchia di San Nicola dei Prefetti registrò il suo nome tra le persone che si erano confessate. I registri parrocchiali, essendo lacunosi, non permettono di capire se si sia trattata di un’occasione sporadica oppure di una consuetudine, né tantomeno è possibile comprendere se siano state solamente adesioni esteriori andando a nascondere quelle che erano le sue convinzioni interiori; un atteggiamento comune a molti nell’Italia del Cinque e del Seicento volto a non destare sospetti e a non finire nella rete dell’Inquisizione.
La cosa certa è che essere cattolico osservante era necessario per raggiungere quella che era l’aspirazione del Merisi: entrare nell’ordine di Malta. Zelo religionis accensus fu la definizione attribuitagli durante la cerimonia d’investitura a “cavaliere di obbedienza” il 14 luglio 1608.
Nonostante questi dati che sembrano mostrare la fedeltà di Caravaggio alla Chiesa di Roma, sono state avanzate argomentazioni relative alla laicità del suo pensiero ipotizzando possibili relazioni dirette o indirette con Giordano Bruno, o ancora una possibile attinenza tra le sensibilità sociali ed evangeliche di quel tempo con i soggetti raffigurati dal Merisi.
Tuttavia, osservando le sue opere, notiamo che queste non contraddicono la teologia cattolica ma semplicemente ne rinnovano i soggetti attraverso l’innovativa formula pittorica dell’artista in grado di rivelare una bellezza morale più che estetica, tenendo conto del contesto storico in cui l’artista visse e le istanze profonde che lo hanno ispirato.
Caravaggio è riconosciuto dagli studiosi come “colui che ha saputo mettere in scena il dramma della vita umana” grazie alla sua sensibilità e alla sua inquieta ricerca della verità nella quale anche la luce, non esclusivamente naturale, è completamente spirituale, in quanto va a significare delle cose e va ad illuminare qualcosa che l’artista stesso vuole sottolineare.
Il corpus merisiano esposto a Barberini mostra l’artista spiritualmente partecipe nella storia dell’umanità. Timothy Keller, nel suo libro Il Dio prodigo, Torino, La Casa della Bibbia Torino, 2012 parla del genere umano come di un branco di esuli che cerca di tornare a casa, ma le barriere che ostacolano questo ritorno sono alte; per tutta la sua vita Caravaggio sembra vagare per il mondo come un esule spirituale, morendo a Porto Ercole prima ancora di sapere di aver ricevuto il perdono, prima ancora di “conoscere l’apolide cosmico che si addossò la maledizione dell’umana ribellione per consentirci di essere accolti nella nostra vera casa”.