Ci chiamate “invisibili”, ma siamo schiavi tra voi

 
 

Schiavi tra noi. Può essere la sintesi del libro Il mio nome è Balbir, Busto Arsizio (VA), People 2024, scritto da Marco Omizzolo, sociologo Eurispes (sotto scorta da anni) con il bracciante indiano Balbir Singh. Nel libro, con uno stile diretto come un pugno allo stomaco, il protagonista dialoga con il sociologo a cui racconta la sua esperienza come schiavo nell’Agro Pontino protrattasi per anni, intollerabile in ogni parte del mondo, ma ancor di più in un paese che come il nostro si professa democratico.


A soli 80 chilometri da Roma, nell’Agro Pontino, Balbir ha lavorato in condizioni di schiavitù per una retribuzione che variava tra i 50 e 150 euro al mese. Per mangiare rubava il cibo che il padrone italiano gettava alle sue galline e maiali. Un inferno vissuto in un paese civile che afferma di essere fondato sul lavoro. Balbir ha però deciso di non rassegnarsi e di ribellarsi, di lottare per la sua libertà e dignità, rischiando la vita più volte. Lui è un uomo la cui lotta ed esempio sono il più grande antidoto contro ogni forma di razzismo, violenza, sfruttamento e schiavismo. Alcuni brani del libro rendono l'idea del dramma profondo e lucido dei due autori.


Noi schiavi abitiamo accanto a voi, a volte anche dentro le vostre case. Ci potete incontrare per strada, in un cantiere, al supermercato, o mentre pedaliamo su una bicicletta scassata indossando uno zaino enorme per consegnare nelle vostre mani le pizze made in Italy cucinate da molti di noi nelle vostre pizzerie...


Cuciamo anche i vostri costosissimi vestiti, quelli dei grandi padroni della moda che voi acquistate per fare bella figura. Costruiamo le grandi navi da crociera sulle quali trascorrete vacanze da sogno nei mari di tutto il mondo, a volte a poche decine di metri dalle spiagge dei Paesi da cui siamo scappati ...


Avete deciso di non vederci, anche quando siete tanto solidali con noi e dichiarate di stare dalla nostra parte. Come certi sindacati. Pensate di aver fatto la rivoluzione comprando una passata di pomodoro biologica. Però per strada ci evitate toccandovi il portafogli o la borsetta per controllare che nessuno ve li abbia rubati. Un po’ come certa gente che va in chiesa la domenica mattina e poi darebbe fuoco al primo straniero che incontra...


Per voi, noi schiavi puzziamo, rubiamo, stupriamo e vi sostituiamo, anche. A volte dite che siamo scimmie, che è già meglio di invisibili, capaci solo di caricare cassoni di pomodori che vendete in tutto il mondo. L’ho sentito urlare mille volte dai padroni: noi stranieri non abbiamo voglia di lavorare. Eppure, rubiamo il vostro posto. Dite anche che dovremmo ringraziare il padrone perché, in fondo, ci permette di vivere e di non morire di fame...


Quante volte mi sono domandato: ma io chi sono? Ho passato più anni in Italia che in India, ma non sono cittadino italiano. Lavoro come uno schiavo, eppure in Italia la schiavitù è vietata. Siete diventati più ricchi grazie a me, ma mi considerate un criminale... Se poi, dentro l’azienda di uno dei padroni, trovate uno schiavo che abita dentro un container, senza riscaldamento, che usa come bagno i campi, non ha un conto corrente, non parla italiano, lavora quattordici ore al giorno in ginocchio dentro una serra nella raccolta degli ortaggi che voi comprate nel supermercato sotto casa, retribuito tra i 50 e i 150 euro al mese e ridotto alla fame, anziché occuparvi di lui, dandogli una casa e la possibilità di una vita dignitosa, lo arrestate per espellerlo.


Una volta un vostro politico ha dichiarato che per noi stranieri «è finita la pacchia». Devo dirti la verità, mi farei volentieri sostituire da questi politici quando lavoro quattordici ore al giorno e sono obbligato a chiamare “padrone” il datore di lavoro, quando mi infortuno e mi dice di andare a casa e non in ospedale, quando piove e mi fa lavorare ugualmente. Farei vivere a loro la vita che sto conducendo in questo bel Paese. Non per punizione. Solo per confrontare le loro idee con la nostra realtà...


Li manderei, ad esempio, a raccogliere pomodori o cocomeri d’estate, sotto il sole cocente, per 4 euro l’ora, per poi vivere dentro container assolati, magari senza luce, o in baracche senza bagno e acqua corrente potabile. Sarebbe la risposta migliore da dare a tutti coloro che vedono noi come problema e il padrone come soluzione. Ma è solo un’utopia.


E' opportuno dire che in Italia non tutti i datori di lavoro sono come quello (ora sotto processo) che ha sfruttato Balbir. Ci sono tanti esempi positivi di relazioni lavorative corrette. Nonostante le ultime leggi contro il caporalato, il problema è ancora presente, e certamente, sebbene necessarie, non bastano le leggi per cambiare l'atteggiamento di fondo di tanti italiani.


La sfida più grande è quella di passare dalla tolleranza all'accoglienza. Ciò richiede vari passaggi sia a livello culturale, sia di una presa d'atto di realismo, perché l'emigrazione è uno di quei fenomeni storici che si devono gestire, ma che non si possono fermare. Anche nelle chiese evangeliche, la cultura dell’accoglienza deve farsi strada affinché le comunità di fede incarnino un modello di integrazione spendibile anche per la società.


Infatti, "L'accoglienza è una responsabilità ineludibile per una società che non si pensa come un'isola, ma si comprende come appartenente all'umanità diversificata ed in movimento. Una società non accogliente idolatra se stessa elevandosi ad assoluto impenetrabile": "Per un'etica responsabile dell'accoglienza", in “Stranieri con noi”,  Studi di teologia (2009) p. 26.