Dare la vita. L’ultimo libro di Michela Murgia

 
 

Dare la vita. Non importa chi, non importa come, non importa a chi, non importa perché. Dare la vita per autodeterminarsi e rispondere solo e soltanto alla propria volontà. Si potrebbero sintetizzare così le circa ottanta pagine del pamphlet postumo di Michela Murgia (1972-2023), uscito il 9 gennaio 2024 presso Rizzoli, che è stato salutato come un lucido manifesto del pensiero queer e lascito intellettuale dell’autrice. 

Il libro, diviso in due parti, affronta il tema della famiglia declinato in due aspetti: la queerness e la gestazione per altri che sono l’apice del percorso intellettuale della scrittrice. Partendo da posizioni cattoliche (sebbene sempre critiche) e passando per idee femministe sempre più radicali, Murgia è arrivata ad ipotizzare la totale distruzione del concetto di famiglia e di binarismo di genere. 

Come aveva già fatto, ad esempio nel libro God save the queer, il punto di partenza è sempre l’esperienza individuale dell’autrice. Se da un punto di vista letterario, questo genera empatia con il lettore, dal punto di vista ideologico esprime il vero focus delle sue idee. Non esistono valori morali, etici, religiosi che tengano. Non ci sono assoluti che fungano da punti fissi intorno a cui far ruotare le riflessioni. Tutto è ripiegato sull’esperienza della felicità individuale e sull’appagamento dei bisogni circoscritti all’IO.

In questo senso la famiglia viene ridotta a struttura patriarcale, a familismo amorale, a matrice di stampo mafioso, a luogo di abuso e a slogan ideologico per le destre, a meno che non sia composta da membri scelti che rendono l’esperienza famigliare “queer” e quindi ideale.  Il concetto di queerness viene elevato ad assoluto anche contro il resto della comunità LGBQT dove le L, G e B (gay, lesbiche e bisessuali), richiamando comunque ad un binarismo di genere, agli occhi dell’autrice continuano a collaborare ad un sistema, secondo lei, non più accettabile. 

“La queerness è la scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera di rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità relazionale” afferma la Murgia attaccando anche il concetto di fedeltà e di indissolubilità dei rapporti di coppia, contrapponendoli a quelli ben meno “possessivi”, secondo lei, di affidabilità e di interscambiabilità. 

A favore della famiglia queer sostiene anche che questo tipo di composizione evita la ri-produzione, aspetto riconducibile al mercato capitalista che esalta il moltiplicarsi. Su questa considerazione viene innestata la riflessione sulla maternità surrogata, termine da lei rigettato a favore di GPA (gestazione per altri). Murgia afferma di non avere risposte chiarissime, ma di essersi interrogata a lungo sulla necessità di legalizzare anche in Italia la pratica della gestazione per altri. L’assunto è che maternità e gravidanza non sono due concetti che si equivalgono e, benché sia vero, il concetto è estremizzato fino a supporre che i legami di sangue siano parte della retorica fascista. 

Il nodo più difficile da sciogliere per l’autrice è quello delle questioni economiche e la disparità di potere tra chi “compra” un figlio e chi si presta a tale pratica per essere remunerata. A questo punto la riflessione dell’autrice si fa persino difficile da seguire su un piano logico perché afferma che, essendoci in Italia una legge sull’interruzione di gravidanza, e, dato che spesso i motivi dell’aborto sono economici, allora ha senso pensare ad una legge che regoli l’inizio di gravidanze per motivi economici. 

Appiccicata a questa riflessione, come una noticina slegata dal resto, è inserita una descrizione della maternità surrogata biblica in cui vengono descritte le esperienze di Sarah ed Agar e delle serve di Lea e Rachele. La nota nasce e si conclude con una sbrigativa considerazione del fatto che, benché l’esperienza sia parte del racconto biblico, non c’è evidenza dell’approvazione di Dio su tale pratica. 

Il libro, scritto nelle ultime settimane di vita della scrittrice, confonde continuamente piano politico, etico, esperienziale, religioso e restituisce un’ideologia confusa e confondente basata su assunti non solo sbagliati, ma anche illogici. 

Fino alla fine Murgia ha tentato di tenere insieme il suo considerarsi cattolica e il suo considerarsi attivista femminista, ma è evidente che nelle ultime pagine da lei lasciate, l’attivismo ha prevaricato sulla sua passione teologica. Ogni richiamo alle Scritture del libro è infatti manipolato, piegato e ridotto a citazione per giustificare idee personali. 

Il mondo queer immaginato dalla Murgia è un mondo in cui, oltre i legami di sangue, una comunità dai valori condivisi mette insieme risorse economiche, emotive e spirituali per il supporto reciproco. Viene da chiedersi se le fughe queer e le continue critiche al sistema “Chiesa” dell’autrice sarda non siano frutto speculari dell’ecclesiologia cattolica. L’istituzionalità, la gerarchia, l’abnorme concezione di sé, la visione moltitudinista della chiesa, offuscando l’aspetto della comunità e della confessionalità, della famiglia e dell’unità di intenti tra credenti, unite alle recenti aperture verso tutti, lasciano spazi per ipotizzare costruzioni totalmente slegate dall’idea biblica di cosa la chiesa sia. Quando parla di “chiesa” e di “famiglia”, Murgia sembra avere in testa dei “mostri” da cui prendere congedo per entrare nell’eldorado queer che, tuttavia, è un altro “mostro”. Erano modelli biblicamente sbagliati quelli che ha lasciato, è un mondo stravolto quello che ha agognato.