Famiglia nel bosco, scelta di “vita naturale”?

 
 

Tra le notizie che colorano le cronache degli ultimi giorni rimbalza spesso quella della famiglia che vive nel bosco. Vivere in un bosco in Italia, solo pochi decenni fa, non avrebbe assunto la stessa importanza mediatica.

La cosa sarebbe stata presto archiviata come esperienza di qualche hippie borderline, da considerare con la paternalistica tolleranza riservata agli elementi folkloristici della cultura sessantottina. Oggi, al contrario, agita le cronache e muove le Istituzioni a intervenire con provvedimenti che dovrebbero garantire i diritti fondamentali.

L’intervento delle autorità riguarda i genitori, ai quali pare sia stata sospesa la potestà genitoriale, e i bambini, che sono stati per ora allontanati dalla loro abitazione “ruspante” per essere collocati, insieme alla madre, in un contesto più “civilizzato” (una struttura). 

Ciò ha suscitato reazioni opposte nell’opinione pubblica: ci sono quelli che si schierano dalla parte dei genitori, difendendo le loro scelte educative, e quelli che invece plaudono al solerte provvedimento istituzionale, per il “bene” dei bambini. 

Le idee di vita di questa famiglia hanno radici antiche, risalgono almeno al pensiero di Rousseau, con il suo mito del buon selvaggio. Sono diventate di moda negli anni 70 dello scorso secolo e sopravvivono ancora in alcune isolate esperienze. Il ritorno alla natura e il rifiuto del progresso, con tutti i suoi corollari, sono motivati dal pensiero che la prima sarebbe buona e incontaminata, mentre il secondo sarebbe cattivo e corrotto.

Educare i figli nel modo più naturale possibile, per loro, significa allevarli nella purezza originaria e preservarli dal male. Questa ideologia (che tra l’altro muove il vastissimo mercato dei prodotti biologici e naturali e rende enormi profitti) di solito rimane confinata nel mondo delle idee e non diventa scelta di rinunciare alle comodità pratiche offerte dal progresso.

Per qualcuno, allora, la decisione radicale di queste persone di vivere nel bosco potrebbe sembrare una scelta coerente, se non fosse per il fatto che, in occasione di un’intossicazione alimentare dovuta all’ingestione di funghi, tutta la famiglia ha fatto ricorso alle cure mediche dell’ospedale più vicino, a dimostrazione del fatto che il progresso non è poi così cattivo, e la natura non è poi così buona. Al di là di certe rappresentazioni idilliache della vita selvaggia, la realtà è molto diversa. 

La natura non è più “naturale” da moltissimo tempo, dal momento in cui è stata maledetta a motivo della disubbidienza della prima coppia umana. Oggi, allevare la prole in una realtà il più possibile vicina a quella originaria la espone sì a esperienze interessanti e significative, ma non la esenta da quelle negative, pericolose e corrotte. Soprattutto non la protegge dal male, essendo il male dentro il cuore di ogni persona, da Adamo in poi.

Che il progresso tecnologico poi non sia il male assoluto, lo dimostra il fatto che per vivere nel bosco la famiglia si è procurata una serie di strutture, congegni e dispositivi che rendono la vita umana possibile e in qualche modo anche confortevole. I genitori si sono anche assunti la responsabilità di fornire ai figli l’istruzione scolastica (home schooling), secondo la possibilità prevista dalla Legge e in qualche modo, quindi, riconoscono che la civiltà presenta dei vantaggi.

Il fatto che il progresso sia stato usato male non significa che dobbiamo rinunciare a esso, perché è il dono divino della creatività, che può essere usato per il bene. Siamo stati creati per vivere insieme, nella società, nel rispetto della nostra unicità e nella bellezza della diversità che Dio ha impresso in ogni persona. La vita nella città rappresenta un’attrattiva universale e crescente, perché la collettività umana è chiamata a manifestare la gloria di Dio.  

Per questo, sotto certi aspetti la scelta educativa della famiglia in questione può essere considerata carente, mancando di socializzazione, con tutto ciò che questo comporta: la possibilità di conoscere altre persone, di confrontare modi di vita, di fare esperienze cognitive, emotive e affettive di cui i bambini hanno bisogno per crescere bene. 

Dall’altra parte, però, le Istituzioni non sembrano poter offrire molto di meglio. Intanto, che cosa dà al Giudice del Tribunale dei Minori il diritto di interferire con autorità nelle scelte di una famiglia? Ricordiamo che la famiglia è una realtà creazionale, prepolitica, e quindi ha dei diritti che non possono essere soverchiati da quelli dello Stato, se non a specifiche e particolari condizioni, strettamente normate.

Non pare che siano a rischio l’integrità fisica o psichica dei bambini e i genitori non hanno dato segno di squilibrio o di grave inadempienza dei loro doveri. Considerare grave il fatto che non abbiano l’uso dell’elettricità o del bagno in casa è una interpretazione esagerata, se pensiamo a quanti bambini anche solo in Italia vivono situazioni ben peggiori, pur abitando in città. 

Le autorità competenti si pongono come tutori del bene dei bambini, ma intanto li separano da uno dei genitori, togliendoli dal loro ambiente abituale per collocarli in una struttura che, per quanto igienica, è estranea e lontana dalla loro esperienza e violando in tal modo la loro coscienza e i loro sentimenti.

Forse sarebbe stato meglio intervenire sul nucleo famigliare, dialogando con i genitori e aiutandoli a riflettere sulla opportunità di correggere alcuni aspetti del loro stile di vita, sul bisogno che i bambini hanno di stare con altri bambini, di apprendere la lingua del Paese in cui sono nati e vivono, di giocare e confrontarsi con altri mondi infantili. 

Magari, chissà, si sarebbe potuto elaborare un progetto di quelli che piacciono tanto agli educatori, come ad esempio una visita guidata di una classe di coetanei alla loro piccola casa nel bosco, luogo in cui potersi scambiare esperienze e conoscenze, sotto la sorveglianza degli adulti. 

Un intervento più lungimirante e più educante, meno autoritario e invasivo, avrebbe forse rispettato maggiormente l’identità della famiglia e il bene dei bambini, e avrebbe anche aiutato il resto della comunità cittadina a considerare la diversità un bene da salvaguardare e non una minaccia da cui proteggersi, uniformando tutto e tutti a uno standard fasullo di benessere e di normalità.