Che pastore vuoi essere? In ascolto dei Padri della chiesa

 
 

Negli anni Sessanta fu Karl Barth a dire che il pastore doveva avere la Bibbia in una mano e il giornale nell’altra (Time Magazine, 1 maggio, 1966). Era un modo di dire che i conduttori dovevano essere lettori della Scrittura e interpreti della cultura. Era un modo di intendere il ministero pastorale come essenzialmente legato all’ermeneutica del mondo alla luce della Parola. 


Poi, il modello “imprenditoriale” mutuato dal business prese il sopravvento: soprattutto nei contesti dove gli evangelici avevano una presenza significativa, il pastore è stato pensato come un “manager” di un’impresa o un “amministratore delegato” di una società. Qui l’idea dominante era del pastore come capace di gestire e mettere a reddito le attività complesse di un’organizzazione.


Poi è arrivata la rivoluzione digitale e il pastore è stato ricompreso come “influencer”. Da lui ci si aspettava di essere un comunicatore a suo agio con i social e in grado di costruire un’immagine accattivante di sé e del brand della chiesa. 


Questo susseguirsi di mode e tendenze ha di fatto costruito una figura del pastore alla mercè delle influenze del tempo, allontanandola dai connotati biblici minimi. Da qualche tempo, tuttavia, assistiamo ad un movimento del pendolo verso l’immaginario del ruolo pastorale desunta dai padri della chiesa antica e medievale. È il caso di C.M. Ford e S.J. Wilhite, Ancient Wisdom for the Care of Souls. Learning the Art of Pastoral Ministry from the Church Fathers, Wheaton, Crossway 2025. 


Entrambi gli autori insegnano in facoltà battiste di teologia degli Stati Uniti del sud e in questo libro sostengono la necessità di recuperare il profilo del ministero pastorale forgiato e plasmato nei secoli della chiesa antica e tarda antica. In poche battute, ecco le coordinate della figura pastorale “tradizionale”:


  1. La teologia classica (in linea col Credo apostolico)

  2. Le virtù considerate come qualifiche del pastore

  3. L’integrazione tra spiritualità e teologia, quella che nel linguaggio della Riforma sarebbe stata chiamato la “pietà”

  4. L’importanza della chiesa locale

  5. La cura d’anime come priorità del ministero. 


Dopo aver delineato questa immagine generale, gli autori tracciano brevi profili del ministero pastorale in Basilio di Cesarea (umiltà), Gregorio di Nissa (spiritualità), Ambrogio, Origene (competenza), Ireneo di Lione (radicamento biblico), Atanasio (cristo-centrismo), Agostino (teologia), Gregorio Nazianzeno (cornice trinitaria), Gregorio Magno (contemplazione), Giovanni Crisostomo (predicazione). 


Dall’assimilazione di ciò risulterebbe un salutare correttivo alle tossicità presenti nel ministero pastorale oggi che è strattonato da pulsioni secolarizzate e che scimmiotta professioni mondane.


Lo sforzo degli autori è ammirevole. Effettivamente, se il ministero pastorale va a rimorchio di modelli carnali presi acriticamente a prestito dal business o dai social media, il risultato sarà la mondanizzazione della chiesa. Il correttivo patristico è utile. Talvolta, esso è presentato in termini troppo idealistici e rarefatto per essere davvero utile.

Ad esempio, alcuni modelli evocati si riferiscono a personalità della storia della chiesa difficilmente riproducibili in altre epoche. Davvero l’ascetismo orientale di Basilio è un modello per i pastori oggi? Davvero la contemplazione di Gregorio è un esempio per i responsabili evangelici? Siamo sicuri che la sapienza pastorale dei padri e i loro modi di vivere il ministero siano sempre da ricevere con ammirazione e desiderio di emulazione?


La biografia teologica degli autori è anche interessante. Entrambi sono nati spiritualmente in ambienti evangelici neo-fondamentalisti che avevano una concezione negativa della storia e nessun interesse per la memoria. Loro hanno visto la debolezza di questa proposta di fede e, una volta preso congedo da quell’esperienza di evangelicalismo, hanno subito il fascino della “tradizione” senza avere griglie sufficientemente critiche per leggerle in chiave evangelica. Una certa ingenuità teologica è rinvenibile nelle pagine del libro. 


Il problema individuato è reale. Se i pastori assomigliano più a start-upper o tik-toker che a persone integre che predicano fedelmente la Parola e si prendono cura delle persone, la chiesa corre seri problemi di trasformarsi in una brutta copia di ciò che dovrebbe essere.

D’altra parte, mentre la memoria della chiesa fedele va tenuta viva, non si può avere della stessa una lettura sentimentale. Il pendolo rischia di passare da un estremo all’altro senza aiutare il ministero pastorale ad assimilare un profilo biblicamente responsabile.