Gianni Berengo Gardin (1930-2025) e la sua “vera fotografia”
A 94 anni ci lascia una pietra miliare della storia della fotografia italiana. Gianni Berengo Gardin, con la sua Leica e il riconoscibile bianco e nero, ha raccontato la società, l’architettura, l’ambiente. La fotografia per lui era segno, documento, scrittura di una storia, di tante storie.
Nella sua rinuncia alla ricerca dell’immagine eccezionale ma isolata, privilegiava per quanto possibile una narrazione piena e descrittiva, fatta con più immagini, l’unica a suo avviso in grado di rendere con verità la condizione umana e la vita quotidiana.
Il suo mestiere, come diceva lui, era quello di guardare e documentare quello che gli stava intorno. “L’occhio come mestiere” è il nome della mostra organizzata nel 2022 al MAXXI, curata da Alessandra Mauro e Margherita Guccione; una riflessione sulla ricerca di Berengo Gardin che vede al suo centro l’uomo e la sua collocazione nello spazio sociale.
Ricordo mi colpirono, tra le altre, le sue immagini che documentano l’impatto della Legge Basaglia e la chiusura degli ospedali psichiatrici in Italia. Le sue fotografie, scattate tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, mostrano gli spazi vuoti e la vita che riprende possesso di luoghi un tempo dedicati alla segregazione dei malati mentali.
In particolare, una fotografia che mostra due donne all’esterno di un istituto psichiatrico dopo l’abbattimento delle recinzioni; il loro sguardo colto da Berengo Gardin è testimonianza del passaggio da una concezione della malattia mentale come esclusione e segregazione a una prospettiva di inclusione e cura.
I segni del manicomio, le giacche troppo larghe o troppo strette, le camicie senza collo con la loro drammaticità in contrasto con gli sguardi; con i suoi ritratti sembrava volesse far riemergere le singolari identità perdute nell’esperienza dello spazio manicomiale.
Si considerava un osservatore, in prima linea nel raccontare quello che doveva essere cambiato, quello che doveva essere celebrato. Ha registrato l’Italia del suo tempo raggiungendo quel “mondo a parte” degli emarginati, degli zingari, dei malati di mente.
Sebastião Salgado lo definiva “il fotografo dell’uomo”. In effetti, Berengo Gardin ha guardato con delicatezza la commedia umana e l’ha scritta con profonda poesia per immagini. Il fotografo-fotografo, così come si definiva lui piuttosto che fotografo-artista, aveva uno sguardo da sacerdote, prossimo, che non pretendeva interpretare, piuttosto raccontare; uno sguardo attento e partecipe verso la realtà che andava testimoniando e che resta oggi nelle sue immagini.
Un punto di vista che racconta però una storia a metà, limitato in quanto non conosceva la storia più grande, quella storia che registra un problema ma giunge ad una speranza per chi l’ha perduta.
Come lui stesso dichiarava, erano le fotografie a farlo rinascere. Il suo credo era la fotografia; il suo dio era la pellicola. Ci si chiede dunque, la sua “vera fotografia”, timbro che apportava sul retro di tutte le sue stampe, avrà colto la verità della condizione umana o solo una sbiadita copia peraltro senza speranza di soluzione?