Lo strabismo sociale della nostra cultura e il necessario correttivo

 
 

Lo strabismo è un fenomeno per cui i due occhi non sono allineati. Uno guarda da un lato, l’altro in un’altra direzione. Il risultato è una vista problematica. Di strabismo sociale si può parlare se si confrontano due articoli pubblicati di recente dal Sole 24 Ore.


Nel primo articolo Silvia Martelli (Il Sole 24 Ore), Emma Louise Stenholm (Føljeton.dk, Danimarca) e Bianca Blei (Norvegia) trattano il tema della microcriminalità urbana mettendo in comparazione due “modelli” diversi: la Norvegia e la Svezia. Mentre in Norvegia la lotta al fenomeno si basa su prevenzione, inclusione e intervento sociale capillare, in Svezia cresce l’allarme per la violenza legata alle gang e al narcotraffico giovanile, e la ricetta è quella di una più consistente presenza della polizia.

Oslo punta su operatori sociali, quindi un approccio “di vicinato” e di “contatto umano”: conoscere le persone, in questo caso giovani senza direzione e anziani e adulti con dipendenza, dare importanza alla loro vita e alle loro storie e dare spazi di ascolto è l’approccio scelto. Stoccolma e Copenaghen invece optano per un approccio più “istituzionale” e securitario: dunque, più presenza di polizia, come in Danimarca dove il Governo “ha reagito con un piano di sicurezza da milioni di corone e pattuglie speciali per intercettare le bande digitali”.

L’articolo privilegia l’approccio norvegese e conclude dicendo che in Italia “il dibattito sulle droghe resta polarizzato. A fronte di una retorica spesso securitaria, le esperienze locali di prevenzione e riduzione del danno sono limitate e sottofinanziate. Eppure, la lezione norvegese è chiara: quando si investe sulla dignità, sul lavoro e sulla presenza quotidiana nei territori, anche le zone più difficili possono cambiare”.


Nel secondo articolo, invece, si parla di lavoro femminile, precisando che “il nostro Paese continua a occupare le ultime posizioni in Europa per quanto riguarda la partecipazione femminile al mercato del lavoro”. L’articolo mostra la differenza tra tasso di occupazione maschile e femminile e le ore di lavoro maschile rispetto a quello femminile. Le donne lavorano di meno e tardi.

Conclude dicendo che “oltre alla dimensione socioeconomica, la bassa occupazione femminile ha radici culturali (come gli stereotipi di genere) e infrastrutturali (come la carenza di asili nido), che non possono essere risolte a colpi di bonus, ma richiedono una strategia organica e concertata”.  


Entrambi gli articoli, visti insieme, mostrano una società che cammina a compartimenti stagni. Nell’esaminare i dati della criminalità, si dice che per combatterla serve più educazione. Essa è rimandata alle scuole, alle associazioni e allo stato. Nel secondo articolo si lamenta una bassa occupazione femminile come se il lavoro dipendente sia l’elemento principale che darebbe dignità alla donna. Inoltre, l’articolo presuppone che la crescita dei figli sia demandata allo Stato con il rafforzamento di servizi per l’infanzia.  


La domanda che sorge è: se si pensa che tutti devono lavorare per essere promotori di ricchezza economica, chi si prende cura delle nuove generazioni che sono in preda alla microcriminalità che nasce dalla solitudine e dall’abbandono?


Alcune riflessioni possono essere fatte.


1. Demandare ai soli operatori sociali l’educazione, non continua a disconoscere il ruolo primario delle famiglie? Non dovrebbero essere ripensate prima di tutto le politiche per la famiglia? Non è il caso di riconoscere alla famiglia il suo ruolo educativo e quindi affrontare il problema “a monte”? 


2. Non andrebbe ripensato il significato del lavoro che, guardando i dati, oggi sembra fagocitare tutte le altre vocazioni e essendo caricato di aspettative personali, sociali, economiche totalizzanti? La vita è certamente fatta di lavoro, ma non solo di lavoro: la genitorialità, il volontariato, la partecipazione ad associazioni varie, … anche queste attività rendono “ricca” la vita. Certamente non bisogna penalizzare il lavoro femminile, ma non bisogna prima di tutto non elevare il lavoro retribuito ad assoluto per una vita piena?

L’immagine che viene data dai due articoli è quella di un cane che si morde la coda: da una parte ci aspettiamo che qualcuno pensi ai giovani e li affianchi, e che recuperi vite rotte dalle dipendenze; dall'altro vogliamo che tutti, senza calcolare gli effetti, abbiano la propria dignità principale nel lavoro, come se questa sia l’unica fonte di realizzazione. Piuttosto che vedere la vita in “frammenti”, è utile guardarla nel suo insieme. Famiglia e lavoro non possono essere contrapposte né tantomeno sovrapporsi, ma possono integrarsi in un ordine sociale armonioso e sostenibile. Essere genitori è altrettanto dignitoso di lavorare guadagnando; lavorare significa non solo realizzare sé stessi, ma contribuire anche al bene altrui.


Bisogna ripensare un ordine sociale differente, dove sia famiglia sia lavoro abbiano il giusto ruolo. Si tratta di una questione nevralgica da non affrontare in modo strabico, ma allineato. Ciò non significa negare l'importanza del lavoro, ma di integrarlo in una visione più ampia che riconosca e valorizzi (anche economicamente e culturalmente) il lavoro di cura, promuova una reale condivisione delle responsabilità e investa in infrastrutture comunitarie (intermedie e plurali) non come "bonus" una tantum, ma come pilastro fondamentale del benessere collettivo.