I rischi di flirtare con la “grande tradizione”. Quattro passi per superare l’infantilismo evangelico
La grande famiglia evangelica non se n’è accorta, ma il piccolo mondo della teologia evangelica internazionale è stato scosso dal “coming out” di Matthew Barrett che, da teologo battista, è diventato anglicano. Lui stesso ha parlato di “conversione” anche se il termine sembra improprio: in fondo si è trattato sinora di un passaggio all’interno del protestantesimo piuttosto che una fuoriuscita da esso.
La transizione è avvenuta dalla tradizione battista (della Southern Baptist Convention) a quella anglicana (nordamericana e conservatrice). Barrett stesso ha caricato la sua storia come se si sia trattato di una liberazione: dal fondamentalismo alla cattolicità, da ambienti tossici a strutture di rendicontazione affidabili, dalla mancanza di senso storico all’abbraccio della tradizione millenaria, da una quasi-setta alla chiesa universale. I toni del suo racconto sono stati tranchant e i contenuti apodittici.
Non mi preme entrare nei dettagli della vicenda personale e di come è stata comunicata. Chi fosse interessato ad una lettura che offre molti spunti validi, può utilmente vedere il video di James White. Il punto che vale la pena trattare è più ampio e riguarda la fascinazione che la “grande tradizione” esercita da un paio di decenni nella teologia evangelicale, soprattutto di area nordamericana e di cui Barrett è protagonista.
Infatti, Barrett è stato sino a ieri professore in una delle facoltà di teologia della Southern Baptist Convention (il Midwestern Baptist Theological Seminary) ed esponente di spicco del movimento di recupero e valorizzazione della “grande tradizione” (i Padri della chiesa antichi e medievali, i concili e, su tutti, Tommaso d’Aquino, considerato da questo movimento il più grande teologo di tutti i tempi).
Ora, ci sono molte ragioni che hanno dato vento alle vele della “scoperta” della grande tradizione, ad esempio:
- Il sostrato ancora molto influenzato dal neo-fondamentalismo di larghi settori dell’evangelicalismo americano: da generazioni ormai, poca attenzione è dedicata alla storia e alla memoria evangelica con il risultato che i credenti evangelici medi sanno poco dell’identità evangelica storica.
- la superficialità di molti vissuti di fede personali ed ecclesiali, molto concentrati sul qui ed ora e senza consapevolezza storica e liturgica. La vita cristiana tende ad essere individualista e il culto uno show.
- lo scontro con la secolarizzazione che, erodendo ed attaccando ciò che era dato per scontato in una “cultura protestante”, ha messo in evidenza la necessità di tornare alle radici.
A tutti questi problemi, la “grande tradizione” è sembrata come la panacea a cui affidarsi.
Ci sono poi ragioni ancora più specifiche al contesto teologico battista nordamericano come le discussioni cristologiche e trinitarie sulla subordinazione eterna del Figlio e sulla “semplicità” di Dio. Queste diatribe hanno portato a creare arrabbiate e polarizzate: i “biblicisti” e i sostenitori della “grande tradizione”. A tutto ciò si aggiungano scontri personali che hanno dato luogo a tifoserie contrapposte.
Col passaggio polemico di Barrett all’anglicanesimo, si registra un salto di qualità di un esito che era prevedibilissimo. E cioè: il movimento della “grande tradizione” porta acqua non al mulino evangelico, ma al cattolicesimo, all’ortodossia e, semmai, all’anglicanesimo.
Già si erano verificate “conversioni” da parte di studenti e simpatizzanti, ora è il caso di un docente di spicco. Ne seguiranno altre? Flirtare in modo infantile con la “grande tradizione” senza discernimento evangelico porta ad abbracciare forme di cristianità che sembrano essere figlie fedeli della “grande tradizione” molto più dell’evangelicalismo.
La storia di Barrett fa sorgere la domanda: come approcciarsi alla tradizione in modo evangelicamente integro? Come evitare di avvicinarsi ingenuamente rimandone ammaliati e sedotti? Ecco tre spunti:
1. Una visione realistica della tradizione. La tradizione della chiesa è un grande calderone in cui c’è tutto e il contrario di tutto. Calvino dice che c’è sia oro che sterco. Non è da respingere (non è umanamente possibile, non è biblicamente richiesto), ma non è nemmeno da assumere in modo superficiale.
La migliore teologia evangelica ha avuto sempre un approccio realistico alla tradizione: essa è inevitabile e per alcuni aspetti utile, ma non può essere presa in blocco ed in modo autoreferenziale. E’ differenziata al suo interno (per periodi storici, per temi, per autori, anche all’interno degli stessi autori) e c’è un parametro esterno di giudizio: la Scrittura.
2. Il criterio di setaccio deve rimanere il “Sola Scrittura”. Per la teologia evangelica, la tradizione è ministeriale, cioè al servizio della chiesa e della fede, mai magisteriale, il criterio determinante delle stesse. Sopra la tradizione, a volte contro la tradizione infedele, rimane l’autorità della Parola di Dio scritta.
E’ nella Scrittura che la guida dello Spirito e la sottomissione a Cristo vanno ricercate. Quando si eleva la tradizione, addirittura etichettandola come la “grande tradizione”, a parametro primario non solo si ha una visione edulcorata della tradizione, ma si commette un grave faux pas teologico dalle conseguenze catastrofiche.
3. La Riforma protestante è stato un tempo in cui Dio ha rivendicato a sé il mondo, non un aggiustamento di aspetti secondari della fede. Al centro del movimento di recupero della “grande tradizione” c’è l’idea errata che la Riforma abbia solo “pulito” alcuni eccessi e sbavature della tradizione precedente sulla chiesa e sulla salvezza, reiterandone e riaffermandone le strutture trinitarie e cristologiche portanti. In quest’ottica, la Riforma sarebbe stata in sostanziale continuità con la “grande tradizione”.
No, la Riforma fu in primo luogo un intervento di Dio volto a recuperare la fede biblica, trinitaria e storica che era stata sfigurata ed abusata. Certamente, vi sono stati collegamenti col passato e richiami alla tradizione, ma sempre sotto l’autorità di Dio nella Scrittura e sempre in ubbidienza al cuore dell’evangelo da ricevere per fede soltanto e alla sola gloria di Dio.
4. Il cattolicesimo, l’ortodossia e l’anglicanesimo non devono essere idealizzati così come l’evangelicalismo non deve essere demonizzato. Gli esponenti della “grande tradizione” tendono ad avere una visione edulcorata di Roma, Bisanzio (Mosca) e Canterbury, come se queste espressioni della cristianità avessero mantenuto ad uno stadio più puro i tesori della “grande tradizione” sotto la protezione di strutture episcopali. La realtà è ben diversa.
Le fratture, gli scandali, le fazioni, i compromessi, ecc. sono trasversali, anzi forse più accentuati lì che non nel mondo evangelico. Speculare a questa esaltazione della tradizione, è la lettura sbrigativamente critica e derogatoria dell’evangelicalismo. Di quest’ultimo coloro che si buttano nelle braccia della “grande tradizione” hanno spesso una percezione schiacciata sul presente senza spessore storico, limitata alla propria esperienza provinciale magari in una mega-chiesa influenzata dal vangelo della prosperità e senza consapevolezza del volto globale dell’evangelicalismo.
Prima di andare a cercare nell’erba del vicino (che sembra più verde ma non lo è), bisogna fare i compitini a casa e famigliarizzarsi con l’identità evangelica storica e mondiale.
Agli occhi di alcuni teologi evangelici nordamericani, la “grande tradizione” ha avuto l’effetto di “incantare” il loro immaginario povero o limitato. L’hanno approcciata con sguardo infantile e ne sono stati ammaliati perdendo il contatto con la realtà. Non è quello l’incanto di cui c’è veramente bisogno. I problemi dell’evangelicalismo (che ci sono e sono molti!) vanno affrontati con le risorse evangeliche della fede biblica e storica, vissuta nel nostro tempo e al servizio della testimonianza dell’evangelo.