Le croci sulle cime dei monti? Un esercizio (fallito) di laicità

 
 

Ha fatto un certo rumore mediatico la polemica che ha coinvolto il Centro Alpino Italiano (CAI) sulle croci in cima alle montagne. In un convegno a Milano, il direttore della rivista del CAI Lo Scarpone aveva sostenuto che è anacronistico nella nostra società plurale e multi-religiosa difendere la pratica di piantare una croce in vetta. Apriti cielo. Il presidente del CAI ha preso le distanze dicendo che si trattava di una posizione personale, poi sono subentrati esponenti di governo a stigmatizzare la critica. Il clima si è avvelenato e il direttore de Lo Scarpone si è dimesso e, insieme a lui, altri dirigenti del CAI.

Purtroppo, nel nostro Paese sembra che tutte le volte che si avanzano dubbi o riserve su pratiche culturali intrecciate alla religione cattolica il dibattito debba scadere in contrapposizione frontale e, dopo che la “maggioranza” ha fatto la voce grossa con toni minacciosi, finire con l’esclusione della “minoranza” che ha osato pensare in modo diverso. Anche questa volta è successo così.

Di cosa si parla? Le nostre montagne sono piene di croci. Ce n’è una su molte cime, dalle Alpi agli Appennini. Si tratta di una pratica iniziata nell’Ottocento quando gli scalatori posizionavano una croce in vetta al monte scalato. I significati potevano essere vari: dalla “firma” per esserci riusciti, al simbolo di possesso territoriale nel segno di una religione o cultura, allo spunto di trascendenza per essere arrivati più vicini al “cielo”.

D’altra parte, dagli albori del regime di cristianità (grosso modo da Costantino in poi, IV secolo d.C.), c’è stata la tendenza a contrassegnare gli spazi pubblici con simboli religiosi (croci, statue, edicole votive), il tempo di tutti con festività religiose (dedicate ai santi, alla madonna, a prassi liturgiche, ecc.) e l’immaginario collettivo con ritratti e oggetti “sacri” (processioni, novene, ecc.). Tutti questi erano modi per connotare i luoghi, saturare il calendario e impregnare l’immaginazione di segni religiosi. Ovviamente, l’assunto di fondo era che la cultura fosse “cristiana” (cattolica), che tutti lo fossero e che lo Stato non potesse che favorire la disseminazione di simboli cattolici nelle pratiche di vita e nei luoghi pubblici.

Negli ultimi decenni, il caso eclatante che ha avuto risalto mediatico, politico e giudiziario è stato quello dell’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole, di ospedali e uffici pubblici. L’annosa controversia si è (per ora) conclusa con la tesi (discutibilissima) che il crocifisso non è un simbolo religioso (quindi confessionale), ma di fratellanza universale (quindi “laico” e di tutti). Pur di mantenerlo appeso nei luoghi pubblici, il crocifisso è stato sottoposto ad una modificazione genetica. Poi vi sono stati i casi delle preghiere in classe, delle recite di Natale, della messa d’inizio anno scolastico, della visita del vescovo cattolico, ecc.: tutti campi che indicano il deficit di laicità ancora presente nel nostro Paese.

Dopo quello del crocifisso, il caso delle croci in vetta è stato un altro esercizio pubblico di laicità. In che senso? Si tratta di riconoscere che la montagna è uno spazio pubblico che appartiene a tutti e che quindi non deve essere connotato religiosamente da nessuna confessione. Se, per ipotesi, un monte fosse proprietà privata di qualcuno, questo qualcuno avrebbe il diritto di piantare quello che vuole. Tuttavia, le montagne sono pubbliche e quindi lo Stato laico non può caratterizzarle confessionalmente. Ciò che è risibile è il goffo tentativo di presentare la croce come simbolo non più cristiano ma della “religione civile” della fraternità.

Il rispetto della laicità deve per forza prevedere la rimozione delle croci già piantate dalle cime delle montagne? No. Laicità non vuol dire praticare la “cancel culture” dei simboli religiosi già esistenti. La laicità matura non è iconoclasta: sa che tutte le culture hanno una storia complessa e contraddittoria che non può e non deve essere eliminata con la distruzione dei suoi simboli. Semmai, si devono favorire processi culturali per storicizzare quell’eredità e si deve riconoscere pubblicamente la pluralità di interpretazioni di quella storia passata, non facendola coincidere con quella della “nazione” o del “popolo”, ma come espressione di un certo assetto culturale di un determinato tempo.

Non viviamo più in un regime di cristianità. La religione di stato non è più la cattolica-romana. Ognuno è libero di indossare e di esporre i simboli religiosi che vuole. La caratterizzazione simbolica ereditata dal passato va rispettata, ma per il futuro evitiamo di connotare permanentemente gli spazi pubblici con simboli confessionali. Questo era esattamente quello che il dirigente CAI aveva affermato: “va bene lasciare le croci esistenti sulle cime, ma non piantiamone altre in futuro”. Questa posizione sensata è stata così criticata da portare alle sue dimissioni. L’esercizio di laicità ha dato esiti negativi. Abbiamo perso un’altra occasione per fare un passetto avanti. Purtroppo, in Italia gli esami di laicità danno ancora risultati insufficienti.