Ragioni per Dio: perché è giusto parlare di Dio nello spazio pubblico?

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Una delle grandi questioni che circondano il dibattito pubblico è la possibilità o meno che a questo dibattito partecipino anche voci religiose, voci cioè che fanno esplicitamente riferimento ad assoluti di tipo trascendente, morale o teologico. Nel nostro Paese siamo stretti in una morsa: da un lato, per molti decenni è stato consentito ad una sola voce religiosa (quella della religione della maggioranza) di agire in regime di monopolio dei “valori” e di essere l’unica voce religiosa autorizzata a partecipare al dibattito pubblico. Altre voci religiose sono state neglette o emarginate. Dall’altro lato, cresce il nervosismo di chi vorrebbe eliminare in radice ogni voce religiosa in nome di un’ideologia laicista, secolarizzata, secondo la quale chi ha degli assoluti non può per definizione partecipare ad un discorso pubblico. C’è chi vorrebbe allora castrare il dibattito dalla dimensione religiosa e aprirlo solo a chi sta dentro l’ideologia della secolarizzazione. Dal monopolio di una voce religiosa su tutte le altre stiamo passando all’esclusione di tutte le voci religiose. 

Questo libro di Tim Keller, Ragioni per Dio. La fede nell’era dello scetticismo, Torino, La Casa della Bibbia 2014, suggerisce e pratica un’impostazione diversa. Per Keller, siamo tutti diversamente credenti in qualcosa. Non esiste la divisione tra chi crede e chi non crede, ma tra chi crede in qualcosa/qualcuno e chi crede in un altro qualcosa/qualcuno. La differenza è semmai, riprendendo un libro recente di Marco Ventura, tra i credenti e i creduli. Siamo tutti esseri religiosi, cioè legati a qualche forma di assoluto: la differenza è che per alcuni la propria religione è esplicita e consapevole, per altri è implicita ed inconsapevole. 

Benedetto Croce diceva che non possiamo non dirci cristiani, ma Keller dice che non possiamo non dirci credenti in qualcosa. Il confronto pubblico deve aprire il dibattito a tutte le voci e non può fare leva sulla esclusione della fede dal dibattito. Si tratta di dialogare sui grandi temi della vita, del male, dell’ingiustizia, del fatto che siamo tutti diversi e in un certo senso tutti uguali nella consapevolezza del nostro essere situati in qualche posto. La dimensione religiosa è ineludibile. Ci sono dei rischi per le voci religiose. Quando la fede si lega ad un’ideologia, cioè ad un sistema chiuso, incapace di dialogo e di collaborazione, inetto a conversare in modo civile, allora rende un pessimo servizio al bene comune. Quando la fede diventa un ghetto ideologico settario che non sa interfacciarsi con il pluralismo e va in cortocircuito rispetto alla complessità. Questa è una fede malata, patologica. Ma Keller mostra invece, che al suo meglio, il credente è una persona che ascolta l’altro, che è interessata ad imparare dall’altro e che vuole contribuire all’incontro reciproco, essendo persuaso che la visione cristiana (in questo caso) sia la più ragionevole e la più efficace. Il dibattito pubblico va abitato con uno stile civile di argomentazione che Keller interpreta molto bene. 

Questo è un libro di apologetica. Si tratta di una parola che è stata fatta entrare nella “bad company” delle parole da non usare nel linguaggio pubblico. Essa crea imbarazzo, pudore e viene rimossa. Apologetica dà l’idea di arroccamento, bigottismo e difensivismo, di una fede retrograda ed asserragliata nella sua cittadella anti-moderna. Per questa ragione, l’apologetica è stata abolita dalle facoltà teologiche liberali e rinominata in quelle cattoliche nella dizione più neutra di “teologia fondamentale”. 

Siamo tutti esseri religiosi, cioè legati a qualche forma di assoluto: la differenza è che per alcuni la propria religione è esplicita e consapevole, per altri è implicita ed inconsapevole.

Questo libro è un tentativo di riabilitare l’apologetica nel senso alto del termine. Secondo l’uso che ne fa il Nuovo Testamento, l’apologetica è l’arte del rendere conto della fede, l’arte di parlare, dialogare, discutere sulla fede. E’ un compito a cui tutti i cristiani sono chiamati ad essere pronti. Deve essere fatto onestamente, con rispetto e con mansuetudine. Io vedo questo tipo di apologetica nel libro di Keller. Una difesa gagliarda della fede, ma che non vuole manipolare l’altro. Una fede cristiana consapevole, ma che ascolta e vuole interagire con l’altro. Un’apologetica dialogica che non si sottrae alle questioni spinose.

Questa apologetica non nasce nel chiuso delle aule accademiche, ma nel vivo della città di New York. Non in un monastero dove l’altro è solo immaginario, ma faccia a faccia con le persone e nel crogiolo della cultura contemporanea: scettica e credula, cinica e superficiale, opulenta eppure povera. Ragioni per Dio parte dalle domande vive e laceranti della gente di fronte al dubbio e allo scetticismo. A partire da queste imbastisce un dialogo trasparente, profondo e ragionevole, presentando la ragionevolezza, la plausibilità e la migliore penetrazione della fede cristiana nelle questioni della vita. Questo è ciò che fa Keller in questo libro. Criticando i monopoli e le esclusioni, si tratta di un’apologetica dallo stile ragionevole che ispira un dibattito aperto e civile.