Il vescovo di Roma. Come sarà il papato del futuro?
La recente morte di Papa Francesco e la successiva elezione di Leone XIV al soglio pontificio hanno riacceso l'interesse dei media per il papato. Al di là dell'attenzione riservata alle personalità dei singoli papi, qual è la funzione del papa? Quali sono le sue prerogative secondo la Chiesa cattolica romana? Come si inserisce questa istituzione nel mondo globale e nelle relazioni ecumeniche al di fuori di Roma?
Queste domande sono tutte prese in considerazione nel documento di studio appena pubblicato dal Dicastero per la Promozione dell'Unità dei Cristiani del Vaticano: “Il Vescovo di Roma. Primato e sinodalità nei dialoghi ecumenici e nelle risposte all'enciclica Ut Unum Sint” (2024; d'ora in poi VdR).
Il testo di 170 pagine esamina il dialogo ecumenico in corso sul ruolo del Papa e l'esercizio del ministero petrino. Il suo contesto remoto è l'invito fatto da Papa Giovanni Paolo II esattamente trent'anni fa. Infatti, nella sua enciclica del 1995 Ut Unum Sint, l'allora Papa chiese ai leader della Chiesa e ai teologi di trovare “una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova” (n. 95).
Da un lato, secondo Giovanni Paolo II, il papato deve essere mantenuto nei suoi elementi essenziali; dall'altro, è presentato come aperto e disposto a ripensarsi in modi nuovi e accettati. Quasi vent'anni dopo, Francesco ha espresso il desiderio di vedere una “conversione pastorale” del papato (Evangelii Gaudium, 2013, n. 32) che lo rendesse al servizio di tutta la cristianità, anzi del mondo intero. Tra le altre cose, la sua insistenza nel riferirsi a sé stesso come “vescovo di Roma”, piuttosto che con altri titoli che rivendicano un'autorità universale, era un modo per incoraggiare tale processo di accettazione.
Il documento raccoglie i frutti dei dialoghi ecumenici sul ministero del Papa in risposta all'invito di Giovanni Paolo II. Non si tratta di una sintesi dell'insegnamento cattolico romano sul papato, ma piuttosto di una sintesi della discussione generata da Ut Unum Sint, come espresso in 30 risposte ufficiali e 50 documenti che vi fanno riferimento.
Il suo obiettivo è quello di cercare una forma di esercizio del papato condivisa da tutte le chiese che partecipano al movimento ecumenico con la Chiesa cattolica romana, ad esempio quella ortodossa orientale, quella orientale, quella anglicana e quella protestante storica.
VdR fornisce importanti indicazioni sull'evoluzione del papato, con alcune intuizioni sulle possibili prospettive future. Ecco alcune interessanti conclusioni.[1]
Sostegno biblico insufficiente
La visione cattolica romana del papato è stata tradizionalmente sostenuta da testi biblici come Matteo 16,17-19 (“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”) e Giovanni 21,15-17 (“Pasci le mie pecore”). Molti recenti dialoghi ecumenici sottolineano che il Nuovo Testamento descrive Pietro come portavoce degli apostoli e con un ruolo speciale all'interno del gruppo.
Tuttavia, lo stesso si può dire di Paolo e Giacomo, anzi di tutti i discepoli (n. 38). Inoltre, nel Nuovo Testamento non vi è alcun riferimento esplicito al trasferimento della leadership di Pietro a qualcun altro, né è chiara la trasmissione dell'autorità apostolica (n. 39). Alcuni dialoghi arrivano addirittura ad affermare che il primato della Chiesa di Roma è “un fatto successivo al Nuovo Testamento”.
Contrariamente a quanto sostengono alcuni apologeti cattolici romani che vogliono dimostrare l'esistenza del papato sulla base della Bibbia, recenti studi esegetici hanno confermato l'opinione secondo cui nella Scrittura non esiste alcuna istituzione del papato. Il processo che ha portato alla sua formazione ha avuto origine altrove, ovvero “nell'importanza di Roma come centro politico, culturale e religioso” (n. 44).
Si può vedere il processo che ha portato all'istituzione del papato in papa Leone I (440-461 d.C.) a metà del V secolo. Come afferma un dialogo: “L'ecclesiologia ‘petrina-romana’ di Leone avrà un ruolo determinante nel successivo orientamento della dottrina ‘cattolica’” (n. 45).
Il punto da sottolineare è che VdR riconosce il fatto che il papato non può essere sostenuto solo dalla Scrittura. Il papato è figlio della storia nato da una combinazione di fattori politici ed ecclesiastici, piuttosto che derivare dalla Bibbia.
Diritto divino e diritto umano
La seconda sezione di VdR è dedicata alla domanda: il papato è de iure divino (diritto divino) e quindi appartiene alla “struttura essenziale e irrevocabile della Chiesa”, come afferma il Vaticano I (n. 48), oppure è de iure umano (diritto umano), cioè il prodotto dello sviluppo storico? Il magistero cattolico romano ha sempre affermato la prima ipotesi, mentre le chiese non cattoliche hanno storicamente sostenuto la seconda.
Qui troviamo un esercizio di elasticizzazione delle categorie. In uno dei dialoghi si può trovare il seguente approccio et-et: “Lo ius divinum (diritto divino) non può mai essere adeguatamente distinto dallo ius humanum (diritto umano). Abbiamo sempre e solo lo ius divinum mediato da particolari forme storiche” (n. 52).
Invece di essere considerate opposte e mutuamente esclusive, il consenso ecumenico sta gradualmente riconoscendo che l'istituzione del papato, pur avendo caratteristiche contingenti che derivano da motivazioni politiche e personalità imperfette (ad esempio, decine di papi immorali), ha anche strutture permanenti ed essenziali che hanno origine nella volontà di Dio. In questo modo, la teologia cattolica romana del papato segna un punto a suo favore.
Pur ammettendo che non tutto il papato è di origine divina e quindi può essere modificato, ribadisce comunque la convinzione che la sua essenza è divina e quindi appartiene alla natura stessa della chiesa, come il Signore ha voluto che fosse.
Secondo VdR, il movimento ecumenico sta progressivamente accettando questa premessa: il papato non è più qualcosa che Roma deve radicalmente riformare, per non dire abbandonare, ma un'istituzione che, con piccole modifiche, finirà per essere messa al servizio della chiesa ecumenica.
Infallibilità?
Sin dalla sua definizione, il dogma cattolico romano dell'infallibilità papale del 1870 è stato un ostacolo tra Roma e le altre chiese. Così come era stato formulato allora, questo privilegio del Papa semplicemente non poteva essere accettato dai non cattolici. Tuttavia, VdR suggerisce una via d’uscita.
Per quanto riguarda l'ermeneutica del Vaticano I, è diventato un principio ecumenico accettato interpretarlo alla luce del Vaticano II (nn. 61 e 66) e quindi collocare l'infallibilità nel contesto più ampio dell'ecclesiologia del Vaticano II. Quest'ultimo ha sottolineato la collegialità dei vescovi (il Papa è uno di loro e non deve mai essere considerato separatamente da loro) e ha riconosciuto un ruolo più attivo ai laici nella vita della chiesa.
L'ecclesiologia del Vaticano II sottolinea la “comunione” e considera il Papa come parte di essa. L'infallibilità promulgata dal Concilio Vaticano I dovrebbe essere “ri-recepita” (n. 145), cioè reinterpretata, alla luce del Concilio Vaticano II.
VdR distingue poi tra il testo del dogma dell'infallibilità e la sua intenzione. Il primo può sembrare eccessivamente giuridico e autoritario, ma l'intenzione era quella di proteggere e servire l'indefettibilità di tutta la chiesa (n. 70).
Si tratta di una preoccupazione che può essere condivisa da tutti i cristiani ecumenici. Se il Vaticano I può essere interpretato in questo modo, anche i non cattolici potrebbero essere disposti “a riconoscere il papato come espressione legittima del ministero petrino di unità” (n. 73).
Un ministero di unità in una chiesa riunificata
“È necessario un primato per tutta la Chiesa?” è la domanda che apre il paragrafo 75. Molti dialoghi ecumenici ne hanno riconosciuto la necessità per tre ragioni.
In primo luogo, la tradizione apostolica. A partire dal IV secolo e sicuramente dal VII secolo, la Sede di Roma è stata considerata “la prima nella gerarchia” (n. 76), anche se, come già osservato in una sezione precedente, questo primato è dovuto a ragioni politiche e non bibliche.
Roma era la capitale dell'impero e il vescovo di Roma cominciò ad essere considerato come colui che presiedeva gli altri a causa dell'importanza della città di Roma nell'Impero Romano (n. 78).
In secondo luogo, l'argomento ecclesiologico. Per quelle chiese che hanno una forma di governo episcopale (cioè guidate da un vescovo), è ovvio che ciò che accade a livello locale dovrebbe accadere a livello universale. In altre parole, se a un vescovo viene data l'autorità su una diocesi locale, è appropriato che il mondo nel suo insieme abbia un vescovo che lo governa.
Terzo, un argomento pragmatico. Molte chiese ammettono prontamente “la necessità di strumenti globali di comunione” (n. 84) che siano in grado di risolvere i conflitti tra le chiese locali e di rappresentarle davanti al mondo globale. Alcuni dialoghi hanno anche sostenuto che il ministero dell'unità concesso dall'ufficio papale servirebbe anche a una missione comune e rinvigorita (n. 86).
Guardando indietro alla storia dello sviluppo del papato, VdR ricorda ciò che Joseph Ratzinger scrisse nel 1982, ovvero che “Roma non deve esigere dall'Oriente più di quanto sia stato formulato e vissuto durante il primo millennio” (n. 91).
Ciò è in linea con l'apertura di Giovanni Paolo II al cambiamento senza alterare gli elementi essenziali del papato. Inoltre, nel primo millennio, la “comunione” era vissuta in modo prevalentemente informale, piuttosto che all'interno di “strutture chiare” (n. 93). L'autorità del Papa romano era caratterizzata principalmente da un “primato d'onore” (n. 94).
Come superare il divario tra il primato d'onore (ecumenicamente accettabile dall'Oriente) e il primato di giurisdizione (come è stato sviluppato nel secondo millennio dalla Chiesa cattolica romana) rimane una questione aperta (n. 98).
La via da seguire è quella di vedere come le dimensioni “comunitaria” (tutti, cioè i cristiani), collegiale (alcuni, cioè i vescovi) e personale (uno, cioè il Papa) della vita della chiesa interagiscono (n. 116) e trovare modi compatibili con le diverse tradizioni. VdR testimonia il fatto che tutti i partner ecumenici sono disposti ad affrontare la questione in modo costruttivo.
Tre tappe fondamentali per il futuro ecumenico del papato
Dopo aver esaminato i contenuti principali del VdR, è giunto il momento di analizzare il documento nel contesto più ampio dell'attuale situazione ecumenica e di cercare di familiarizzarsi con la sua narrazione teologica. Secondo i frutti del dialogo ecumenico raccolti nel documento, il papato avrà un futuro come istituzione religiosa mondiale al servizio della chiesa riunificata.
Nessuno dei partner ecumenici mette in discussione questa prospettiva. Si tratta di capire come e quando, non se e perché. Sono finiti i tempi in cui, sia in Oriente che in Occidente, il Papato cattolico romano era visto come un ostacolo non biblico e insormontabile che doveva essere rimosso. Sembra che oggi, per essere “ecumenici”, sia necessario accettare un Papato leggermente modificato in termini di atteggiamenti e titoli, ma senza alcun cambiamento per quanto riguarda la sostanza teologica.
Per valutare la posta in gioco, è necessario comprendere la traiettoria che la Chiesa cattolica romana è stata in grado di influenzare negli ultimi 60 anni dal Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ecco tre passi importanti che hanno dato forma al quadro ecumenico alla base di VdR:
1. “Complementari”, non più “in conflitto”
È stato il documento del 1964 del Concilio Vaticano II sull'ecumenismo ad affermare che “varie formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi” (Vaticano II, Unitatis Redintegratio, 1964, n. 17). Il principio di complementarità e compatibilità è stato esteso a tutte le questioni dottrinali. La teologia ecumenica considera tutte le differenze come appartenenti alla stessa realtà, accessibile da varie angolazioni e interpretata come reciprocamente arricchente piuttosto che reciprocamente esclusiva. Questo è diventato il presupposto dell'ecumenismo odierno.
Tra le altre cose, ciò significa che il recupero evangelico del Vangelo racchiuso nel “solo Cristo”, “sola Scrittura” e “sola fede” della Riforma protestante è ora visto come una “enfasi” da integrare nel tutto cattolico romano, piuttosto che come espressione della fede cristiana in opposizione alla versione del vangelo della Chiesa cattolica romana. Il papato non è più visto come un'istituzione al centro di un conflitto teologico, ma come una parte essenziale della Chiesa, in cui sono possibili e accettate visioni complementari.
2. Da "consenso differenziato" a "esercizio differenziato"
Nel 1999, la Chiesa cattolica romana e la Federazione luterana mondiale firmarono la "Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione" (DCDG), una delle dottrine divisive del XVI secolo. DCDG sostiene che il documento racchiude “un consenso su verità fondamentali. Le elaborazioni tra loro diverse sui singoli aspetti sono compatibili con tale consenso” (n. 14).
Questo approccio è stato successivamente definito come "consenso differenziato": cattolici e luterani possono concordare sulle basi della giustificazione e mantenere le loro rispettive enfasi come compatibili. Il "consenso differenziato" è stato successivamente utilizzato per favorire un dialogo ecumenico che considerasse le dottrine come costituite da moduli assemblati, invece di trattarle come aspetti di un insieme integrato.
Ora, VdR mostra che lo stesso approccio è esteso al Papato. Si tratta di un "esercizio differenziato della giurisdizione del Vescovo di Roma" (n. 150), che spazia dalla piena giurisdizione (la Chiesa Cattolica Romana), al "primato d'onore" (chiese anglicane, orientali e ortodosse) fino ad una leadership globale (chiese storiche protestanti). I partner ecumenici avranno la possibilità di accedere ad un "esercizio differenziato" di esso, scegliendo gli aspetti che piacciono e lasciando da parte quelli con cui sono in disaccordo. Il punto è che il papato rimarrà per tutti.
3. Aperto al cambiamento, non rinunciando ai tratti "essenziali" cattolici romani
Ora possiamo vedere che l'invito dato da Giovanni Paolo II nel 1995 non era fuori contesto; al contrario, era un riflesso della mentalità ecumenica già affermata dal Vaticano II e un suo ulteriore sviluppo. Le regole del gioco suggerite da Giovanni Paolo II (i.e. aperte a piccoli cambiamenti, che portino avanti l'essenziale) sono state accettate e sono ora considerate come il consenso condiviso del movimento ecumenico.
VdR si erge sulle spalle dei tentativi post-Vaticano II compiuti da Roma per chiamare tutti i cristiani ad essere uniti, superando le divisioni passate, vedendo tutte le tradizioni come complementari e costruendo questa unità su un consenso differenziato. L'altro lato della medaglia è che Roma non cederà allo stesso tempo ai propri tratti "essenziali" come sono incorporati nel suo sistema dottrinale - il Papato essendo uno di loro.
L'unità ecumenica prevista da VdR avrà al centro il Papa romano: in un certo senso, sarà un’istituzione tipicamente cattolica romana ora aggiornata e conforme all'era ecumenica. VdR è l'ultimo esempio dell'assorbimento cattolico di idee diverse ed ex oppositori, a condizione che accettino che Roma non cambierà i suoi impegni teologici fondamentali che sono al di fuori o contro l'insegnamento biblico, e invece espanderà ulteriormente la sua sintesi che va oltre i confini del vangelo.
Il cristianesimo biblico non è una sotto-sezione pacificata del cattolicesimo romano, ma un'alternativa del vangelo ad un sistema che non si basa sulla Scrittura soltanto come ultima autorità e sulla fede soltanto come mezzo attraverso il quale la salvezza deve essere ricevuta.
[1]: I riferimenti ai paragrafi saranno inseriti tra parentesi nel testo.