Essere ciccioni è peccato? La risposta di John Frame

 
 

Peso in eccesso, percezione di essere “ciccioni”, mangiare troppo e male. Molte persone combattono con il proprio peso che avvertono come non appropriato alla struttura del corpo, alle condizioni ottimali di salute o alle convenzioni sociali sulla “fitness”. Al di là delle considerazioni mediche, nutrizionistiche e culturali, c’è anche una questione spirituale? Essere sovrappeso equivale a vivere in uno stato di peccato? Il tema è molto diffuso (chi di noi è davvero contento del proprio peso?) e anche delicato perché la relazione col cibo e col corpo tocca delle corde profonde e sensibili.

Ad affrontarlo, a mo’ di testimonianza autobiografica, è il teologo americano John Frame (n. 1939), professore emerito di teologia sistematica al Reformed Theological Seminary (Orlando). Nel suo ultimo volume On Theology. Explorations and Controversies (2023), c’è anche un breve saggio intitolato “Diet, Theology and Medicine” (pp. 411-414) in cui Frame, molto onestamente e mettendo in gioco la sua vulnerabilità, parla della sfida di accettare il proprio corpo, di avere abitudini alimentari adeguate e di portare lo stigma sociale di essere sovrappeso. A lui piace mangiare e non gli piace fare esercizio fisico. Ha provato a fare tante diete, ma sempre soffrendole senza ricavare benefici personali. Dunque, nell’essere “rotondo” sta peccando?

Chi è famigliare con l’etica delle prospettive sostenuta e praticata da Frame non si stupirà di trovare il teologo americano condividere le sue riflessioni grazie alla triade delle prospettive normativa, situazione ed esistenziale.[1]

Intanto, Frame distingue tra obesità morbigena (una patologia medica) ed eccesso di peso. Lui parla della seconda. Tutti i cristiani devono essere consapevoli di non trattare la pancia come il loro dio (Fil 3,19) e di essere il tempio dello Spirito Santo (1 Cor 6,19), anche se quest’ultimo riferimento è applicato da Paolo al tema dell’immoralità sessuale e non ai peccati di gola. Come per qualsiasi altra cosa, bisogna mangiare e bere alla gloria di Dio (1 Cor 10,31) sapendo di non trovarsi mai in un terreno spiritualmente neutro. Detto questo, quanto e come mangiare non è la prospettiva normativa che lo dice.

Da un punto di vista situazionale, Frame sostiene che i criteri di magrezza, fitness, peso forma, grassezza, ecc. sono cangianti e dipendono dalla cultura e dal tempo. Per questa ragione, non possono essere fissati in modo assoluto e universale, piuttosto lasciano spazio ad un range elastico. Ognuno di noi ha una sua conformazione particolare e si trova all’interno di vissuti diversi. Inoltre, lui ha provato molte diete con due risultati: intristirsi e non avere risultati duraturi. 

In questo caso, secondo Frame, molto peso (e la scelta della parola non è casuale) in questa riflessione lo porta la prospettiva esistenziale. Se il cibo non è un idolo e se non vi sono condizioni di realtà rigidamente vincolanti, cosa dà più soddisfazione nella vita personale? Frame dice di gustare il cibo e di sentirsi bene così. Al contrario, la dieta lo deprime, così come fare esercizio fisico lo svuota senza ricaricarlo. Sua moglie gli vuole bene così com’è. Non ha ruoli professionali pubblici per cui gli sia imposto un corpo filiforme. Ha più di 80 anni e gode di relativa buona salute. Insomma, sempre guardandosi dal non cadere nell’idolatria del ventre, non crede che la sua stazza, che molti considerano “eccessiva”, sia di per sé una condizione di peccato da cui pentirsi e per cui cercare un cambiamento del cuore prima che del corpo.

E’ una lettura biblicamente realista? Troppo auto-indulgente? Liberante rispetto a stereotipi di magrezza e fitness imposti? Se dovessimo fare una lettura applicata a noi, quale sarebbe il risultato?

P.S. Sulla cultura evangelica del cibo, segnalo la prossima edizione delle Giornate teologiche su “Fede e cibo” (Padova, 8-9 settembre 2023).

[1] Rimando al mio “La pratica dell’uno e del molteplice: l’etica delle prospettive”, Studi di teologia NS 34 (2005/2) pp. 156-165.