Essere pastori oggi, con la Bibbia e col giornale

 
 

La Bibbia e il giornale. Celebre è la frase di Karl Barth sulla necessità per il predicatore-pastore di avere in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale. Da un lato, la Parola di Dio deve guidare il suo ministero; dall’altro, la lettura della realtà in cui svolge il servizio deve essere adeguata. Non si tratta di equiparare l’importanza della Bibbia e del giornale, ma di riconoscere un certo grado di complementarità. 

Su questo connubio tanto imprescindibile quanto delicato e critico, aveva scritto pagine importanti Cornelius Van Til (1895-1987) nel suo libro The Reformed Pastor and Modern Thought (1971). Questo libro voleva aiutare il pastore a orientarsi nella babele ideologica del pensiero moderno, volendo offrire chiavi di lettura delle correnti di pensiero con cui il ministero doveva misurarsi, volente o nolente. Il pastore, come tutti i credenti del resto, si trova a confrontarsi con le tendenze del mondo moderno che si calano nei vissuti delle persone. 

Un libro recente richiama quel titolo vantiliano anche se ha un taglio diverso. Si tratta del volume di William Edgar, R. Kent Hughes e Alfred Poirier, The Pastor and the Modern World: Reformed Ministry and a Secular Culture, Philadelphia, Westminster Seminary Press 2022. Esso raccoglie tre conferenze tenute presso la Facoltà di teologia di Westminster sulle sfide attuali del ministero pastorale. Il titolo forse è troppo ambizioso per la natura del libro di sole 100 pagine. L’intento però è quello di aprire tre finestre e di offrire qualche spunto per la riflessione che vale la pena ascoltare anche dall’altra parte dell’oceano.

Nel primo intervento, William Edgar si interroga sull’impatto della secolarizzazione sul ministero pastorale. Non c’è dubbio che i fenomeni di abbandono delle pratiche religiose, di agnosticismo e di ateismo militante siano reali e preoccupanti. La gente intorno a noi sembra essere sconnessa, distaccata, sempre più confusa. Tuttavia, Edgar ricorda come le previsioni secondo cui la secolarizzazione avrebbe spazzato via la religione siano state smentite dai fatti. Il mondo è sempre “religioso”, forse in modo diverso dal passato. Ci sono “surrogati della trascendenza” che permeano la vita di tutti. Il problema non è la mancanza di religione, ma l’idolatria dei nostri cuori.

Kent Hughes parla del pastore come dell’esegeta pubblico della Scrittura. Nella predicazione deve trasparire la sottomissione alla Parola e la partecipazione affettiva, emotiva, totale alla Parola stessa. Richiamando la lezione omiletica di Jonathan Edwards, Hughes invita i predicatori a curare la predicazione “affettiva”, del cuore, da cuore a cuore. La lezioncina esegetica o il discorsone dottrinario non aiutano nessuno. I “sentimenti religiosi” devono attivarsi in chi annuncia affinché siano ricevuti da chi ascolta.

Infine, l’intervento di Alfred Poirier sul pastore come “medico delle anime”. Qui il punto di riferimento del discorso non è un puritano, ma un padre della chiesa: il cappadoce Gregorio di Nazianzo (329-390). Gregorio aveva un’indole da uomo solitario, dedito alla meditazione personale. La chiamata al pastorato lo “obbligò” a stare tra le persone, a uscire dal suo desiderio di stare per conto proprio per mischiarsi con gli altri. Il pastore non può permettersi di coltivare l’isolamento, ma deve investire nelle relazioni. Non bastano nemmeno le relazioni “social”. Occorre dare peso alla costruzione di rapporti interpersonali all’insegna dell’incoraggiamento reciproco alla santità in Cristo.

Come si è detto, il volume apre tre finestre sulle sfide del ministero pastorale oggi. Pur in mezzo a tante criticità e pericoli, esso rimane una responsabilità alta e totalizzante per chi è chiamato da Dio e riconosciuto dalla chiesa. Nessuno è veramente sufficiente alle tante sollecitazioni cui è soggetto, ma tutti possiamo crescere verso ministeri specchi di vite integre, guarite ed in crescita.