Gianni Vattimo (1936-2023) e la maschera del cristianesimo “debole”

 
 

Maestro del “pensiero debole”, studioso di Nietzsche e Heidegger, discepolo di Gadamer, … sono questi i titoli che vengono impiegati per descrivere la parabola filosofica di Gianni Vattimo (1936-2023). La sua figura andava oltre il campo dell’accademia. Per decenni ha scritto articoli su La Stampa su temi di attualità culturale, si è anche impegnato in politica, è stato polemista di tempra. Di formazione cattolica, Vattimo aveva nell’adolescenza lasciato la militanza religiosa perché omosessuale. Non aveva lasciato il cristianesimo, secondo lui. Anzi, lo aveva trovato, sempre secondo lui. 

 Nel 1996, il suo pamphlet Credere di credere aveva suscitato un certo scalpore in quanto metteva in evidenza il ritorno del filosofo torinese alla “fede”, o meglio, al suo tipo di fede postmoderna, poi articolata in una miriade di scritti, tra cui il libro Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso (2002).

Secondo Vattimo, dopo la morte di Dio pronunciata da Nietzsche e la fine della metafisica di cui parla Heidegger, sono venute meno le ragioni filosofiche dell’ateismo. Il pensiero del Novecento ha infatti dichiarato morto il Dio dei filosofi, quel principio ontologico oggettivo, stabile e universale assunto dalla religione naturale attraverso la metafisica. L'essere si è fatto “debole” ed il pensiero non può che essere debole cioè consapevole dell'impossibilità di qualunque verità assoluta e trascendente, di qualsiasi valore oggettivo, di qualsiasi punto di riferimento unitario. Per Vattimo, la fede non è finita, ma è anch’essa “debole”, dubitante, priva di certezze, di categorie forti quali vero e falso, bene e male, giusto e ingiusto, consapevole di non essere giunta a verità definitive, quindi concepibile come "credenza". 

A questo punto è legittimo chiedersi quali siano i contenuti di questa fede. Per il filosofo torinese, il nucleo centrale del cristianesimo, ciò che lo distingue dalle religioni naturali e storiche, è l'incarnazione, l'umanizzazione di Dio in Cristo che lo indebolisce definitivamente. Vattimo interpreta l'incarnazione rifacendosi al concetto paolino di "kénosis", letteralmente svuotamento, spoliazione, annichilimento. L'incarnazione viene pensata come la perdita da parte di Dio dei caratteri d'onnipotenza, assolutezza, eternità e trascendenza attribuitigli dalla metafisica. Anche Dio è debole e il nucleo essenziale del cristianesimo è la carità: tutto il resto è lasciato alla non definitività delle diverse esperienze storiche e delle diverse interpretazioni. In uno slogan, il cristianesimo smette i panni dell’universalismo e indossa quelli dell’ospitalità.

Il significato fondamentale del cristianesimo è la buona novella che Dio ha deciso di instaurare con l'uomo un rapporto di amicizia, si è fatto amico dell'uomo. Il cristianesimo, per Vattimo, è "una dottrina che ha la sua chiave di volta nella kenosis di Dio e dunque nella salvezza intesa come dissoluzione del sacro naturale-violento" (Credere di credere, p. 58). La carità è il nucleo essenziale ed inalienabile del cristianesimo che non può essere oggetto di riduzione o demitizzazione (p. 79). Tutto il resto "è lasciato alla non definitività delle diverse esperienze storiche" (p. 78).

Quanto sia distante questa versione postmoderna dalla fede evangelica appare chiaramente: c’è un’altra visione di Dio, dell’incarnazione di Gesù Cristo, della sua opera di salvezza e della vita cristiana.  Nella lettura di Vattimo, il cristianesimo è stato piegato alla sensibilità relativista, a parole non violenta, inclusivista del nostro tempo. In questa visione del cristianesimo, nessuno è messo in discussione, tranne Dio. Tutti gli altri sono rinforzati nelle loro convinzioni e non chiamati alla conversione dal peccato: è questo l’evangelo? C’è da chiedersi se questa operazione non lo distorca, come fa qualsiasi cristianesimo "prêt-à-porter", del fai-da-te, del bricolage culturale. In simili interpretazioni del cristianesimo, non c’è posto per la gioiosa confessione che “Gesù Cristo è il Signore” (Fil 2,10). 

Dietro la maschera della fede debole di Vattimo si nasconde un insieme di presupposti forti, assoluti che governano l'ascolto del messaggio evangelico e che lo modellano secondo criteri ad esso tendenzialmente estranei.