Immagini sì, immagini no. La controversia sull’arte nella chiesa antica

 
 

[Questo articolo è stato già pubblicato il 15 giugno 2022. In occasione del periodo estivo, la redazione di Loci Communes ha scelto di ripubblicare articoli che ritiene rilevanti, alternandoli a nuovi. Buona lettura!]

Immagini sì, immagini no? Questa è stata la domanda che si è da subito imposta nella chiesa antica. Il cristianesimo dei primi secoli partiva, da un lato, dall’interdizione dell’AT e, dall’altro, dalla tradizione iconografica ellenistico-romana che aveva l’ambizione di sostituzione o ripetere la realtà con l’immagine. Da qui parte il corposo studio di Daniele Guastini, Immagini cristiane e cultura antica, Brescia, Morcelliana 2021 che è stato presentato a conclusione del programma dell’a.a. 2021-2022 di “Libri per Roma” dell’ICED

Il primo atteggiamento culturale era motivato dall’associazione delle immagini agli idoli e dal tentativo di contrastare l’idolatria. Esso può essere sintetizzato così: “poiché Dio non si è fatto vedere, ogni immagine del Creatore realizzata dall’uomo non può che essere una dannosa sostituzione e ogni immagine del suo creato un inutile raddoppiamento” (p. 367). In questa direzione si sono mossi Origene e Ireneo secondo i quali Dio si è fatto conoscere nel logos (Parola), non nella eikon (immagine). 

A questo atteggiamento tranchant si è via via affiancato, fino a rimpiazzarlo, uno sguardo “tollerante” (p. 403) che interpretava il paolino “non esistono idoli al mondo” (1 Corinzi 8) come autorizzazione ad usare le immagini non più secondo le accezioni greco-romane, ma dentro la cornice del superamento dei valori antichi in attesa del compimento di tutte le cose. Guastini ritiene che la frase di Paolo che parla di un vedere “ora come in uno specchio ciò che allora vedremo faccia a faccia” (1 Corinzi 13,12) sia la chiave per iniziare a capire la trasformazione dell’immagine operata dal cristianesimo.

Il cristianesimo navigò nelle acque tempestose dell’iconoclastia (dagli aniconici secoli I e II agli iconoclasti secoli VIII e IX) e dell’iconofilia, apportando un contributo originale che portò ad un concetto di immagine come trasfigurazione tipologica. Al di là della complesse e violente vicende ecclesiastiche che videro prevalere prima il partito degli iconoclasti, poi quello degli iconofili o iconoduli (rispettivamente sostenitori e veneratori delle immagini), sono i profili teologici a sostegno dell’una o dell’altra tesi che interessano in modo particolare. 

A sostegno dell’iconoclastia faceva da sfondo la matrice giudaica della fede cristiana che vietava col II comandamento la fabbricazione e l’uso di sculture ed immagini per il culto dovuto a Dio. Gli iconoclasti non vedevano, anche alla luce dell’incarnazione culminata con l’ascensione del Signore Gesù risorto, alcun cambiamento per il culto cristiano rispetto al dettato del II comandamento. Esso avrebbe dovuto essere reso “in spirito e verità” (Giovanni 4,23) senza ausili di raffigurazioni del Cristo che, secondo l’annuncio degli angeli, era stato sottratto ai nostri sguardi (Atti 1,9-11). Inoltre, sul piano cristologico, se le immagini avessero solo descritto la natura umana di Cristo, l’avrebbero separata da quella divina, commettendo quindi un errore dal sapore nestoriano. Se avessero voluto “catturare” la natura divina, l’avrebbero di fatto ridotta a quella umana, manipolandola e distorcendola in senso eutichiano.

In un certo senso, mentre l’iconoclastia poteva rivendicare un ancoraggio nell’eredità giudaica del cristianesimo, l’onere della prova contraria ricadeva sui sostenitori delle immagini. Fu Leonzio di Neapoli ad introdurre nella riflessione un argomento cristologico: nelle immagini di Cristo, infatti, era l’incarnazione stessa di Gesù che si estendeva nello spazio e si prolungava nel tempo. Su queste premesse che vedevano le immagini non più contrarie al culto divino ma addirittura come necessarie alla fruizione dei benefici dell’incarnazione continuativa, è Giovanni Damasceno che emerse come principale voce a difesa delle immagini. Distinguendo tra adorazione (latreia, dovuta esclusivamente a Dio) e venerazione (proskunesis, attribuibile alle creature distintesi per particolari virtù e dignità), il Damasceno sviluppava la sua tesi puntando sull’incarnazione del Figlio nella persona di Cristo come legittimazione dell’uso delle immagini. Certamente, per Giovanni, farsi immagini di Dio era sbagliato. Eppure, visto che il Figlio di Dio aveva assunto una natura umana, Lui poteva essere raffigurato. Alla categoria delle immagini riproducibili appartenevano anche gli angeli in quanto creature finite e limitate. Anzi, l’argomento degli iconofili da difensivo diventava offensivo: non farsi immagini del Figlio di Dio incarnato significava ri-cadere nella trappola del manicheismo secondo il quale la materia in quanto tale era malvagia e/o nella religione giudaica che non aveva accettato l’incarnazione e voleva rimanere assoggettata all’antica legge mosaica. Le immagini di Cristo, creando una vera e propria iconografia sacra, potevano essere strumenti di catechesi ed incitamenti a vivere in modo cristiano: insomma erano dei canali, dei mezzi, degli strumenti della grazia. Avevano inoltre un’efficacia sacramentale. Le immagini venivano viste come una presenza viva ed attuale dell’evento o della persona raffigurati.

Nel 787 il Secondo Concilio di Nicea, convocato dall’imperatrice Irene, decretò la riabilitazione delle immagini per il culto (dopo che il Concilio di Hieria le aveva vietate nel 754, riconoscendo nella Cena del Signore l’unica “immagine” prescrittaci dall’evangelo) e l’autorizzazione ad esporle negli edifici religiosi, sui paramenti, nelle case e nelle vie. Ciò non solo si applicava alle immagini di Cristo, ma anche a quelle di Maria, degli angeli e dei santi. A Nicea venne sostenuto che “L’onore reso all’immagine appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto”. La vittoria dell’iconofilia sull’iconoclastia aprì le porte alla concentrazione della spiritualità sulle immagini sacre (e non sulla Parola divina), sul Cristo raffigurato e non su quello predicato secondo l’evangelo. Inoltre, considerata la diffusione esplosiva del culto mariano della Theotokos (madre di Dio) in Oriente, fu anche il viatico per lo sviluppo smisurato dell’iconografia mariana associato alla spiritualità.