L’età secolare, per i 90 anni di Charles Taylor

 
 

È uno dei filosofi contemporanei “prezzemolino” nelle discussioni sulla secolarizzazione e dintorni. Non sembra che oggi si possa parlare di religione nel mondo contemporaneo senza fare riferimento allo studioso canadese (e cattolico) Charles Taylor. Quest’anno compie 90 anni e l’occasione è utile per una rapida riflessione sulla sua analisi che ha generato così tante discussioni, anche in ambito evangelico. Si pensi, a titolo di esempio, a James K.A. Smith, How (Not) to be Secular: Reading Charles Taylor, Grand Rapids, Eerdmans 2014 ma anche a Tim Keller, Making Sense of God. An Invitation to the Skeptics, New York, Viking 2016 che interagisce molto con Taylor. 

Il suo libro A Secular Age (2007), trad. it. L'età secolare, Milano, Feltrinelli 2009, è una di quelle opere spartiacque che segna un prima e un dopo, anche se è un volume complesso e lungo (quasi 1100 pagine nell’edizione italiana). Data la sua importanza seminale, è utile provare a misurarsi con esso in modo impressionistico, anche col rischio (inevitabile) di semplificarlo. Per fare questo mi avvalgo del libro curato da Collin Hansen, Our Secular Age, Ten Years of Reading and Applying Charles Taylor, Deerfield, The Gospel Coalition 2017, che, in tredici brevi saggi, contiene un’utile bussola evangelica per addentrarsi nell’universo di Taylor. 

L’età secolare è il secondo libro di una certa importanza. Già in Sources of the Self: The Making of the Modern Identity (1989), trad. it. Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993, Taylor aveva iniziato a contribuire alla sua lettura della modernità, partendo dalla svolta verso il soggetto che l’ha caratterizzata. L’io medievale era “poroso” al trascendente, pensandosi dentro un modo “aperto” al soprannaturale e all’ulteriore divino, mentre quello moderno diventa “schermato” e chiude la sua prospettiva a solo ciò che “pensa” (Cartesio), “sente” (Rousseau) o “sperimenta” (Hume). 

Nell’Età secolare, Taylor sviluppa ulteriormente la sua analisi che, secondo Smith, è una “antropologia culturale per la missione urbana”. Per Taylor, l’età secolare è il contesto con cui la vita morale, sociale e religiosa di oggi si trova a misurarsi. È il brodo di coltura che, iniziato a bollire nel Rinascimento, dà sapore alla cultura contemporanea. L’età secolare descrive le strutture di plausibilità che danno senso alla nostra generazione.

Detta in pillole, ecco cos’è. Non è Dio o un soggetto esterno o trascendente (la tradizione, le religioni, le ideologie) la fonte di senso, ma ciò che ognuno sente essere vicino a sé nel momento storico che vive, così come lo percepisce. Il mantra dell’età secolare è l’“individualismo espressivo”, quella combinazione tra autonomia individuale e libertà di scelta all’interno di possibilità multiple e mutevoli, comunque basata sul “sentire” del momento. La figlia dell’incontro tra autonomia e libertà è l’“autenticità”, la realizzazione (o presunta tale) di sé. Nell’analisi di Taylor, l’età secolare non produce ciò che promette. Le donne e gli uomini secolari avvertono in modo crescente la loro “fragilità”: da un lato la volontà di perseguire la loro autenticità, dall’altro la presa d’atto che tutto è precario, insoddisfacente, vuoto. Taylor lo chiama “il malessere dell’autenticità”. 

L’individuo “poroso” pre-moderno che accettava di essere interpellato dall’esterno ed interagiva con esso si è “schermato” dal trascendente, ha bloccato le vie di accesso e si è concentrato su di sé alla ricerca di ciò che è autentico. O meglio, dice Taylor, ha provato a schermarsi, visto che poi cerca nei “riti di passaggio” religiosi dei punti di appoggio che aiutino nelle crisi esistenziali e di fronte ai drammi della vita. L’autenticità risulta avvolta da coltri spesse che la rendono un ideale raggiungibile solo ad intermittenza, all’interno di intervalli lunghi segnati invece da spaesamento.

L’età secolare è un humus tanto pervasivo nella cultura contemporanea quanto contraddittorio nella sua effettiva vivibilità. Ci sono faglie che determinano vite rotte e progetti di vita friabili. L’autenticità ricercata schermandosi da Dio è più un miraggio che una realtà. La libertà non si trova nell’autonomia secca ma nell’interdipendenza. L’individualismo anche se espressivo è pur sempre una riduzione della gamma della vita che conduce all’idolatria di sé (quindi a una schiavitù). 

È evidente che tutto ciò pone grandi sfide alla testimonianza evangelica. Come predichiamo, come viviamo la chiesa, come siamo persone in relazione, come testimoniano, di quale “buona notizia” siamo interpreti, … tutto ciò deve fare i conti con la cultura dell’età secolare di cui siamo imbevuti (che ne siamo consapevoli o meno). Per questo un’opera come quella Taylor, per quanto complessa e non risolutiva, può essere una voce utile con cui dialogare per crescere nella qualità della testimonianza evangelica.