Michelangelo teologo: quale rapporto tra grazia e opere?

 
 

Dire Michelangelo è dire arte. Il soggetto e l’oggetto si amalgamano con così tanta naturalezza che il “Divin artista”, così chiamato dal Rinascimento in poi, è unanimemente ritenuto uno dei massimi archetipi di chi voglia aspirare a una vocazione pittorica, scultorea e architettonica. 


Se però Michelangelo, di cui quest’anno si festeggiano i 550 anni dalla nascita, è immediatamente associato all’arte, non si può dire lo stesso nel caso della teologia. Cosa c’entra il Buonarroti con quest’ultima? Va bene che il suo appellativo rimanda ad un’entità trascendente, per comunicare le sue doti “soprannaturali”, ma oltre a questo? In realtà, Michelangelo ebbe modo di sviluppare una propria teologia, la quale ebbe ricadute sulle sue opere d’arte.  


Il pensiero teologico dell’artista fiorentino traspare chiaramente nelle lettere e poesie indirizzate a Vittoria Colonna (1490/92-1547), nobildonna laziale che nel corso della vita si avvicinò alle idee della Riforma protestante condividendole epistolarmente con Michelangelo, anch’egli attratto dai venti dottrinali d’oltralpe, in particolare grazie alle predicazioni di Bernardino Ochino. A parlarne, focalizzandosi sulla prospettiva della grazia dell’artista, è Gunter Wassilowsky, autore del saggio a cui faremo riferimento, intitolato “L’idea di grazia nell’opera di Michelangelo” (Gruyter, 2023).


Michelangelo vede la grazia di Dio come dono, enfatizzando la sua estrema peculiarità. Essa non può essere né prodotta, né acquistata, né comprata, né guadagnata dall’uomo. È un atto di benevolenza gratuito da parte di Dio e in quanto tale può essere solamente ricevuta e accettata. In risposta, l’uomo graziato, nel vivere tale dono, si rende conto di non poter contraccambiare in modo equivalente, data la sua finitudine creaturale: “un don celeste non con mille pruove / pagar del suo può già che è mortale”. La grazia umana è sì connessa alla grazia divina, essendo la prima la risposta alla seconda; tuttavia, esse si trovano su due livelli differenti. Difficilmente la grazia di Dio nei confronti dell’uomo potrà essere totalmente equiparata a quella che quest’ultimo mostra nei confronti di altri uomini. La grazia di Dio rigenera spiritualmente l’uomo peccatore, la grazia dell’uomo può al massimo ristorare socialmente.


Wassilowsky mostra come la comprensione di Michelangelo della grazia come dono abbia delle ripercussioni anche nel suo modo di comprenderla esteticamente. La grazia è difficilmente rappresentata e rappresentabile non per la sua assenza, ma piuttosto perché la sua gratuità assoluta impedisce all’artista di tradurla in un elemento artisticamente tangibile. È sì concettualmente presente, ma non può essere inserita sostanzialmente nell’opera, altrimenti implicherebbe la sua creazione da parte dell’uomo in realtà incapace di produrre un’elargizione assolutamente divina.


In questo quadro sulla grazia, Michelangelo ritiene le opere sì insufficienti, ma non insignificanti. Esse acquisiscono significato solamente nel momento in cui l’uomo riceve il dono della grazia, permettendogli, seppur in maniera sbilanciata, di ricambiare. Per il nostro artista, le opere non sono il mezzo per acquisire fede, ma il risultato necessario di quest’ultima. Mentre Wassilowsky afferma che il Buonarroti abbia una concezione controriformistica della giustificazione, cioè di un’infusione salvifica in itinere contrassegnata da opere e sacramenti, in realtà ci sembra di intravedere una visione più luterana del rapporto tra grazia e opere. Se non fosse così, la prima asserzione michelangesca della grazia come dono assoluto non potrebbe sussistere. 


Wassilowsky ritiene che i due affreschi presenti nella Cappella Paolina dei Musei Vaticani siano l’attestazione del pensiero dell’artista. L’affresco che mostra la conversione di Paolo raffigurerebbe la grazia che irrompe incondizionatamente nella vita dell’apostolo, mentre l’affresco della crocifissione di Pietro punterebbe sull’azione di quest’ultimo come mezzo attraverso cui ricevere la salvezza. Mentre Wassilowsky vede in queste due rappresentazioni due modalità di salvezza dal peccato, una per grazia e una per opere, riteniamo che i due affreschi debbano essere visti teologicamente propedeutici. Entrambi i soggetti hanno sperimentato la grazia di Dio, ma nel caso di Paolo, l’artista ha voluto illustrare l’incontro con il dono, mentre nel caso di Pietro, ha enfatizzato fino a che punto l’incontro pregresso con la grazia porti l’uomo a voler rispondere a tale atto misericordioso.  


Detto questo, è ancora una questione dibattuta se Michelangelo possa essere ritenuto un protestante tout court, dato che non lo dichiarò mai apertamente e pubblicamente. Da quello che si può constatare dalla sua biografia, sembra che il Buonarroti abbia vissuto un’irrequietezza teologica esistenziale contrassegnata da momenti più improntati dall’umanesimo neoplatonico e periodi più marcati da una visione protestante della fede. Era un indeciso? Era un credente che stava lentamente rinnovando il suo pensiero alla luce del Vangelo? Era un erasmiano, nella chiesa romana ma critico di quest’ultima? O era un nicodemita sopraffatto dalla paura di perdere il successo acquisito?  


(Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Che vi do!, XXXIV, n. 109, aprile 2025, periodico quadrimestrale di Pane Quotidiano Onlus)