Morire “on demand”. Il triste epilogo delle sorelle Kessler

 
 

Da qualche mese ho sul mio tavolo i volumi di Giovanni Fornero, Il diritto di andarsene. Filosofia e diritto del fine vita tra presente e futuro, Torino, Utet 2023 e di G. Fornero, F. Rimoli, R. D’Andrea, Diritto di vivere e morire. Una rivoluzione copernicana, Torino, Utet 2025. Si tratta di due possenti e dense difese della disponibilità della vita considerata come massima espressione dell’autonomia delle persone nelle decisioni di inizio e fine vita, e addirittura elevata a “diritto”.


Quello che questi libri argomentano in modo sofisticato sul piano filosofico, giuridico ed etico, in questi giorni è stato raccontato a mo’ di parabola con la vicenda delle gemelle Kessler, protagoniste di una morte che si configura come un caso di suicidio assistito, più che di eutanasia.

Sembra che non vi fossero condizioni patologiche gravi, ma che la decisione di farla finita sia maturata quasi a prescindere da malattie conclamate e invalidanti. Semplicemente, le signore hanno deciso di andarsene quando volevano loro, come volevano loro. 


Si tratta della fattispecie della morte “on demand”. La nostra cultura è arrivata al punto da considerare la morte alla stregua di una scelta autonoma del soggetto all’interno di un carnet di opzioni possibili. Al di là dell’impatto emotivo forse determinato dalla notorietà delle gemelle Kessler e dal fatto che a compierlo non sia stato un unico soggetto ma due persone insieme, quanto è accaduto non è una novità. 


È da decenni che le soglie della vita in entrata e in uscita sono sotto pressione nelle nostre società. Prima l’inizio vita, poi il fine vita, ora sottoposti ad una manovra a tenaglia. Prima il diritto all’aborto, poi la legalizzazione dell’eutanasia, ora declinati come “diritto di vivere e morire”. 


Si tratta di due corni speculari della medesima questione di fondo: l’assoluta e insindacabile autonomia del soggetto anche sull’ingresso e sull’uscita dalla vita, a prescindere da altre considerazioni. In questa comprensione della “libertà individuale”, il soggetto ha a disposizione la vita “on demand”. 


Al di là di altre considerazioni, a ben pensarci, l’ideologia della vita “on demand”, per quanto si presenti come impattante solo chi sceglie autonomamente il proprio destino, ha effetti collaterali gravissimi. Nel caso dell’aborto, essa si estende anche alla vita del nascituro a cui invece è negata ogni voce in merito. Nel caso dell’eutanasia, essa può includere anche la somministrazione della morte a chi non l’ha chiesta, come nel caso dell’eutanasia passiva, ampiamente documentata in letteratura. 


Le soglie della vita in ingresso e in uscita non sono più soggette a tabù paralizzanti. E questo non è un male di per sé, anzi. Sono anch’esse spazi e momenti da vivere triangolando il rispetto della vita e la responsabilità personale, all’interno di casi specifici sempre da prendere in carico. Bisogna però non perdere di vista ciò che va oltre il carnet di opzioni nelle nostre disponibilità, e cioè il dono della vita come una possibilità che ci precede e che eccede il nostro dominio individuale.


Il “senso” della vita non è un’impresa solitaria che ognuno fa e disfa come vuole. C’è un canovaccio dentro cui la vita accade; ci sono limiti dentro cui avviene, ci sono soglie da non oltrepassare per non permettere alle decisioni di alcuni di incidere pesantemente su quelle di altri e di non trasformare la vita in una commodity qualunque con cui il narciso che è in noi vuole giochicchiare.


Decidere di fare e disfare la vita può sembrare un atto di maturità; in realtà, pare essere più una forma maldestra della tanto vecchia quanto pericolosa bugia del serpente: “sarete come Dio”. Ascoltarla ha sempre avuto effetti disastrosi. 



N.B. Sulle discussioni intorno all’eutanasia, è valido il fascicolo “Eutanasia”, Studi di teologia – Suppl. N. 1 (2003).