Ricordando Pasolini, oltre (e forse contro) Pasolini

 
 

Angoscia. È questa la sensazione che ho provato leggendo i cartelli pubblicitari tappezzati per Roma in occasione del 50° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini (1922-1975). No, il fastidio non deriva dal ricordo del suo omicidio, di per sé un fatto tragico e raccapricciante, ma dalle frasi emblematiche che il Comune di Roma ha deciso di utilizzare per sintetizzare il pensiero dell’intellettuale. 


“Libertà e ribellione erano il suo pane”, “È un brusio la vita”, “Il futuro è già finito”, “O essere utopisti o sparire”. Sono espressioni di un pensatore amareggiato, critico della modernità e del consumismo degli anni ’50-’60, giunto fino ai giorni nostri. Secondo Pasolini, il dio consumismo aveva sostituito i vecchi valori contadino-popolari e religiosi con un nuovo totalitarismo della merce, uniformando i desideri, il linguaggio e la cultura, così plasmati dalle immagini di televisione e pubblicità. 


Secondo l’intellettuale la società si stava lentamente appiattendo, narcotizzata com’era da quello che lui chiama il “fascismo” del materialismo e dall’omologazione. Per Pasolini, il progresso tecnologico e materiale aveva causato una regressione spirituale e antropologica. L’uomo aveva bisogno di recuperare la dimensione sacra e comunitaria della vita, drasticamente sostituita dalla sete di possesso materiale e dall’egocentrismo. 


Se da una parte Pasolini aveva ragione nel denunciare la deriva materialista e individualista dei suoi tempi, di cui continuiamo a vedere le conseguenze, dall’altra non è riuscito a offrire una risposta soddisfacente. L’intellettuale bolognese ha dedicato la sua vita a gridare nel deserto, ma le sue urla, in parte legittime, non hanno fatto altro che evidenziare alcuni dei sintomi ma non la loro causa comune. 


Lui stesso, così reticente nei confronti di una società che si lasciava ammaliare dagli oggetti e dall’io, era caduto nella stessa trappola, credendo che la salvezza fosse da trovare nel piacere dell’estetica: “Nella vita che viviamo ogni giorno sono poche le cose belle. Il lavoro difficilmente è bello. L’universo cittadino è insopportabile. La nostra esistenza è fatta di tante piccole cose mediocri o dolorose. Che cosa resterebbe di bello intorno a noi oltre alla natura e alle opere d’arte?” [“Il futuro è già finito. Intervista a Pier Paolo Pasolini” (1973)]. 


Così come tutti i discorsi dell’uomo, anche le parole pessimiste di Pasolini necessitano di passare al setaccio delle parole realiste e speranzose di Dio. 


“Libertà e ribellione erano il suo pane”. Biblicamente la libertà non è da associare alla rivoluzione, ma alla sottomissione. La ribellione è il “pane” di un cuore peccaminoso non rigenerato. La sottomissione è il cibo di colui che riconosce di essere stato liberato per Dio e non da lui. 


“È un brusio la vita”. Sì, la Parola riconosce la fragilità della vita (Salmo 144,4; Isaia 40, 6-8) e il brusio disturbante causato dal peccato che non permette all’uomo di ascoltare l’armoniosa voce del suo Creatore. Al contempo però, la Parola ci ricorda che la vera vita è stata donata per mezzo della fede in Cristo e che, essendo Dio il sovrano che provvede la vita, Egli chiama i credenti a fiorire nelle loro vocazioni fin quando egli vorrà.  


“Il futuro è già finito”. Il determinismo nichilistico di Pasolini, dove ciò che verrà è già morto, è riconosciuto dalla Scrittura nell’uomo senza Dio. Senza Dio non c’è speranza (Ef 2,12); con Cristo, l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine (Ap 1,8) il futuro è in mani certe. Per i credenti il futuro è già iniziato nella risurrezione di Cristo, la quale ha inaugurato ciò che sarà completato con la sua seconda venuta. 


“O essere utopisti o sparire”. Contro un ideale irrealizzato e l’alternativa di una vita vissuta nell’insignificanza, la fede biblica si fonda su una promessa divina che non si costruisce dal basso ma si riceve dall’alto. La questione non è essere utopisti o sparire, ma essere rigenerati o perduti. L’utopia pasoliniana è da sostituire con una speranza vera, non in qualcosa che l’uomo fa per salvarsi e vivere beato, ma in una salvezza adempiuta che viene creduta e vissuta. 


Roma ha deciso di ricordare Pasolini dichiarando il patrimonio dell’intellettuale che la città vuole perpetuare nel presente: un sentimento cinico, pessimista e nichilistico nei confronti della vita (già presente e radicato in molti romani e italiani). In risposta alle parole senza risposta di Pasolini, i credenti di Roma vogliono indirizzare i suoi cittadini ad ascoltare la Parola di Dio, la quale invita non alla rivoluzione, ma alla sottomissione, non alla disperazione, ma alla fiducia, non all’utopia, ma alla speranza. 



Sul pensiero di Pasolini da una prospettiva evangelica si veda anche: 


Leonardo De Chirico, “Le “Lettere luterane” di Pasolini. Cosa voleva dire?” (Loci Communes, 5/03/2022)

Liberato Vitale, “Il vangelo secondo Pasolini (secondo José de Segovia)” (Loci Communes, 29/04/2022)