Riformare l’algoritmo? Per un uso consapevole dei social

 
 

Hai mai pensato a quanto bene Amazon conoscesse i tuoi bisogni? A quanto calzanti siano i contenuti di Instagram in base ai tuoi interessi? A quanto incredibilmente accurate siano le pubblicità di YouTube che ti propongono di prenotare l’hotel al miglior prezzo proprio nel posto in cui andrai la settimana prossima? Come fa Tik tok a proporti, scrollata dopo scrollata, un nuovo video che ti tiene incollato allo schermo perché rientra nei tuoi interessi? L’algoritmo sa chi sei!

A volte è quasi spaventoso, altre volte semplicemente ci trastulliamo con pigrizia nella comodità di tali servizi. Ormai sono lontani i tempi in cui la parola “algoritmo” era appannaggio di pochi tecnici e appassionati nerd. L’“algoritmo” non solo non è più una parola sconosciuta, ma non è neanche più una parola neutra. Dietro questo concetto matematico/informatico, c’è chi complottisticamente ci vede poteri oscuri muoversi, chi un’entità di spionaggio delle nostre vite e chi quasi una figura amichevole pronta a suggerirci contenuti e prodotti legati ai nostri interessi.

In effetti, come si può immaginare, l’accuratezza con cui veniamo esposti a certi contenuti piuttosto che ad altri non è casuale. Un recente esperimento condotto per il Corriere della Sera da Milena Gabanelli e Simona Ravizza, non solo lo dimostra, ma prova anche a spiegarne le dinamiche.

Detto in breve, accettando i termini di uso e le policy di privacy o i cosiddetti cookies dei siti, accettiamo di fornire dati che i social passano ai data broker, ossia società che ci profilano e che classificano ogni singolo utente collocandolo in una o più categorie. Queste società in base ai dati di utilizzo, le interazioni che abbiamo, i contenuti che cerchiamo, gli acquisti online che effettuiamo, sono in grado di avere un’idea estremamente accurata di chi siamo, dove viviamo, per chi votiamo, quanti soldi a disposizione abbiamo ed anche in cosa crediamo.

Questa è la realtà in cui viviamo ed è bene esserne consapevoli. Come infatti si legge su un recente articolo di Ian Harber per The Gospel Coalition, i social possono essere un luogo di distorsione spirituale. Benché siano solo piattaforme sulle quali si riversano i contenuti degli utenti, essi non sono campi neutri. Non lo sono, non solo e non tanto perché le aziende sono interessate ad acquistare i nostri dati per operazioni di marketing, ma perché anche i social sono nati e si sviluppano in un mondo inquinato dal peccato.

Un atteggiamento ingenuo e naïve rispetto a questi meccanismi mette in serio pericolo anche la nostra salute spirituale sia a livello personale che a livello generale. La risoluzione a lasciare i social può, se presa con cognizione di causa, essere un mezzo per resistere e per alimentare una spiritualità sana. Ma esiste anche una possibilità di santificazione nel nostro cammino cristiano nonostante (o per mezzo de) l’uso dei social?

Si direbbe che poiché si può mangiare e bere per la gloria di Dio, (1Co 10,31), si può anche “scrollare per la gloria di Dio”. Alla luce di ciò si possono fare alcune considerazioni che aprono alla possibilità di usare i social conoscendone i meccanismi e cercando di viverli con maturità spirituale.

In primis, una breve controllata alle homepage dei nostri social e ai contenuti suggeriti può fungere da specchio di chi noi siamo e delle nostre passioni. Senza voler assolutizzare questo concetto e utilizzare i social come definitori della nostra identità, possiamo però dire con una certa accuratezza che, se i contenuti che ci vengono proposti sono continuamente frivoli, beceri, inappropriati e dannosi per la salute spirituale, c’è qualcosa che non va nel modo in cui “alimentammo il nostro algoritmo”. Quei contenuti ci rispecchiano. Rispecchiano le vere passioni che si agitano nelle nostre membra (Gc 4,1) quando, lontani da occhi indiscreti, ci rilassiamo nei momenti di pausa.

Aprire gli occhi su questa realtà può essere un primo passo per passare a risoluzioni più pratiche: seguire content creator che possano avere un’influenza positiva sul nostro cammino cristiano, promuovere contenuti edificanti, impegnarsi per rendere la propria presenza sui social virtuosa…

Un’altra considerazione può essere quella di confrontarsi sempre con una realtà analogica. Frequentare la propria chiesa locale, essere radicati in essa, essere sfidati dal confronto con gli altri fratelli e sorelle è molto più costruttivo di perdersi in spirali di contenuti social che alimentano le nostre convinzioni. Finire in una bolla di contenuti che sposa le nostre idee non è equivalente ad un percorso di discepolato fatto con la chiesa locale che incoraggia a crescere e maturare nel cammino cristiano.

Mentre le grandi questioni etiche sulle intelligenze artificiali, l’uso dei dati personali e la libertà di espressione online restano aperte, iniziamo a vivere con consapevolezza gli strumenti di cui ci serviamo quotidianamente.