Se la Chiesa brucia, quale futuro per il cristianesimo?

 
se la chiesa brucia
 

L’incendio alla cattedrale di Notre-Dame di Parigi (15 aprile 2019) è un simbolo della chiesa che brucia nell’Europa secolarizzata e, più in generale, nel mondo globalizzato. Parte con questa immagine evocativa il libro di Andrea Riccardi, La Chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo, Bari-Roma, Laterza 2021. La cattedrale al centro di Parigi, nel cuore dell’Europa, incastonata nella sua storia e emblema della sua cultura, brucia e, bruciando, raffigura lo stato di crisi profonda in cui versa il cristianesimo. Questa non è un’opinione gratuita, ma un’osservazione fattuale. I praticanti sono in calo in tutto il continente, le vocazioni crollano ovunque, le tradizioni sono erose e entrano nel tunnel dell’oblio, l’adesione al credo e alla morale precipita, le parrocchie sono in crisi d’identità. I processi di secolarizzazione sembrano inarrestabili e smontano un pezzo alla volta i mattoni della religiosità istituzionale. La chiesa vive certamente una stagione di declino. Rischia addirittura di scomparire?

Nel dipingere questo affresco a tinte scure, Riccardi documenta gli indicatori della crisi del cattolicesimo (e più in generale delle chiese “storiche”) e lo fa tenendo presente i vari quadranti nazionali (Francia, Italia, Spagna, Germania) con le loro particolarità. Si sofferma anche sulle forme di “nazional-cattolicesimo” (Ungheria e Polonia) che sono tentativi di intrecciare religione e identità nazionale per fare del cattolicesimo una sorta di baluardo religioso-civile di fronte allo spaesamento contemporaneo.

La crisi, secondo Riccardi, parte da lontano. In realtà, la domanda se il cristianesimo europeo stesse per morire se l’era già posta Jean Delumeau nel 1977 (Il cristianesimo sta per morire?) e, ancor prima, il cardinale francese Suhard nel 1947 quando aveva parlato di “declino”. In quest’ottica, il Vaticano II (1962-1965), con la sua attenzione “pastorale”, è stato una risposta alla crisi nel tentativo di abbracciare il mondo moderno ricomprendendolo sul versante della cattolicità allargata di Roma, piuttosto che intestardirsi a farlo rientrare nei canoni della romanità da cui sembrava aver preso congedo. Con la Evangelii Nuntiandi (1975) Paolo VI ha lanciato la “evangelizzazione” come metodo per recuperare terreno dopo averlo perso con la Humanae Vitae sulla morale sessuale (1968). Invano. L’onda lunga della rivoluzione del ’68 ha di fatto scavato in modo più profondo il fossato tra l’Europa e la chiesa e dentro la chiesa stessa. Mentre il cattolicesimo ha dato prova di essere attrezzato ad affrontare la questione sociale e le ideologie politiche, non ha saputo reggere al confronto con l’individualismo contemporaneo, il libertarismo sessuale e il consumismo sfrenato e globalizzato. Il pontificato lungo ed energetico di Giovanni Paolo II è sembrato recuperare terreno, ma, in realtà, ha coperto la crisi, più che risolverla. Con Benedetto XVI la rottura profonda ha raggiunto un punto culminante con le irrituali e, per molti versi, sconvolgenti dimissioni del Papa. Seguendo lo “spirito” pastorale del Vaticano II, Papa Francesco sta cercando di allargare ulteriormente le maglie della cattolicità per tentare di ricostruire ponti con la “prima generazione incredula” (Armando Matteo, p. 116) sulla base della misericordia per tutti, della fratellanza universale, della cura per l’ambiente, tutti temi molto lontani dal cattolicesimo “romano” e istituzionale della tradizione. Quanto sia efficace questa strategia resta da vedere, anche se non sembra che essa abbia invertito la rotta, anzi.  

Da studioso cattolico, Riccardi racconta la crisi e segnala alcuni spunti per intravedere un futuro diverso. Riprendendo la sociologa francese Hervieu-Léger, il cattolicesimo che si è caratterizzato come “religione fredda” (verticistica e moralistica) dovrebbe sciogliersi ed imparare a diventare più “calda”. Ciò significa, ad esempio, abitare il mondo contemporaneo con “presenze ecclesiali molteplici, capaci d’incontro carismatiche, diversificate, prossime e dialoganti con la gente” (p. 207). Non stupisce che il fondatore di Sant’Egidio sostenga il ruolo dei movimenti ecclesiali quali soggetti cattolici orizzontali, capaci di interfacciarsi con nicchie diverse di società secolarizzata, intercettando bisogni particolari, disintermediando la relazione con la religione rispetto all’unico canale rappresentato dalla chiesa istituzionale e, dunque, offrendo un ventaglio di risposte “cattoliche”. Visto che il cattolicesimo ha al suo centro l’eucaristia e che ci vuole un prete per amministrare il sacramento, per ovviare alla mancanza di preti (col rischio di far venir meno lo specifico cattolico), Riccardi si spinge sino a sostenere la possibilità di riconoscere i preti sposati (pp.199-203). 

Siano consentite due rapide riflessioni. Sull’ampio e sensibile radar di Riccardi compaiono spesso quelli che lui chiama i “movimenti neoprotestanti” (pp. 54-55; 130-133) nel cui calderone mette “fondamentalismi, teologia della prosperità, comunità neoprotestanti, neopentecostalismo e tant’altro” (p. 132). Dice che, in controtendenza rispetto al cattolicesimo romano e alle chiese storiche, i loro numeri crescono anche in Europa, non solo grazie agli immigrati. Le definisce “comunità calde, emotive” che si distinguono da quelle “anonime” del cattolicesimo e che risultano essere attraenti anche per questo. Addirittura, fa riferimento, senza prendere le distanze, ad un documento vaticano del 1985 che le definiva in modo denigratorio “sette”: un modo strumentale ed inaccettabile di etichettare un cristianesimo che, invece, è fondamentalmente biblico, ortodosso, protestante e risvegliato. Da uno studioso del calibro di Riccardi, sarebbe giusto aspettarsi meno qualunquismo e un maggiore rigore nel riferirsi ad un fenomeno che, per quanto composito e portatore di criticità interne, ha una sua fisionomia decifrabile come documenta, ad esempio, la pubblicazione di Dichiarazioni evangeliche. Il movimento evangelicale 1966-1997, Bologna, EDB 1997 e Dichiarazioni evangeliche II. Il movimento evangelicale 1998-2017, Bologna, EDB 2018. Nella storiografia, nella sociologia religiosa e nella teologia, anche in Italia, si è affermato il termine “movimento evangelicale” per descrivere un mondo trasversale all’evangelismo che non è solo “caldo” emotivamente, ma anche (entro certi limiti, s’intende) “saldo” teologicamente e “baldo” missiologicamente.  

L’analisi della crisi suggerita dal libro è onesta e senza reticenze. Eppure, la via di uscita immaginata rimane dentro il quadro intangibile dei pilastri della cattolicità romana. Sembra che, di fronte all’incendio in corso, la risposta debba comunque essere “pastorale”, senza prevedere un ripensamento dottrinale dell’auto-comprensione della Chiesa di Roma. La struttura gerarchica, l’impalcatura sacramentale, la teologia fondata sulla Tradizione, i dogmi promulgati, le devozioni assorbite, ecc. tutto ciò brucia, ma è intoccabile. Alla fine, di fronte ad una diagnosi gravissima, la cura immaginata sembra essere un placebo. Se la chiesa brucia, le intelligenze migliori del cattolicesimo non sono sfiorate dall’esigenza di andare più in profondità nel capire le ragioni della crisi. Per tutte le chiese e per tutti i cristiani, non è una maggiore pastoralità il punto di volta, ma il ritorno alla Parola di Dio accompagnato dal pentimento dal peccato e dalla risposta di fede pronta a rimettere in discussione tutti gli assetti compromessi costruiti nel tempo. Questi sono i passi verso un tempo di “riforma”. Il fuoco della secolarizzazione rischia di incenerire la chiesa, ma la fiamma inestinguibile della riforma secondo l’evangelo (M. Reeves, La fiamma inestinguibile. Alla scoperta del cuore della Riforma, Porto Mantovano/MN, Coram Deo 2017) può eliminare le tossine accumulate e aprire la strada ad un cammino di conversione. 

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