Se la tazzona di caffè entra nel culto

 
 

Che c’entra la tazzona di caffè col culto evangelico? Se lo è chiesto John Piper, noto predicatore e autore nordamericano, in un tweet che ha suscitato una valanga di commenti. Come c’era da aspettarselo, visto che Piper ha due milioni di followers, ne è seguito un aspro ping-pong di commenti spesso acidi e abrasivi. La diatriba ha superato l’oceano e a parlarne è un articoletto tra il gustoso ed il perplesso di Evangelicals Now (novembre 2023).

Di cosa si tratta? Citando Ebrei 12,28 (“Offriamo a Dio un culto gradito con riverenza e timore”), Piper si è chiesto se sia consono partecipare al culto con la tazzona di caffè in mano, sorseggiandolo tra un canto e il sermone. Evidentemente, si tratta di una pratica diffusa nelle mega-chiese americane dove, all’ingresso, di solito c’è un punto vendita di noti brand di caffetteria per cui le persone entrano nel salone del culto con la tazzona in mano con la variante preferita di caffè: cappuccino, mokaccino, latte, caffè con ghiaccio, ecc. Per Piper questa abitudine confligge con la “riverenza e timore” dovuta al Signore nel tempo del culto. Secondo lui, la partecipazione alla liturgia cristiana richiede un atteggiamento di stacco, di discontinuità, di concentrazione rispetto alle abitudini della vita quotidiana.

Per entrare meglio nella questione, è necessario avere contezza del fatto che la tazzona di caffè in mano è una pratica diffusa negli USA: al lavoro, in auto, passeggiando … molte persone portano con sé il caffè o la bevanda preferita che viene bevuta a sorsi continui nel tempo. Perché non dovrebbero averla tra le mani al culto? O, proprio perché ce l’hanno spesso in mano, visto che il culto è un tempo “speciale”, non dovrebbe essere caratterizzato da pratiche diverse da quelle usuali? Per quanto riguarda la tazzona di caffè in mano, Piper sostiene proprio questa seconda linea di pensiero.

Al centro della questione non è tanto il caffè, ma la considerazione che si ha del culto. E’ un tempo “normale” o “eccezionale”? E’ da vivere in continuità con la vita feriale o in discontinuità con essa? E’ più un mix di rimandi alla quotidianità o piuttosto un indicatore di un vissuto diverso? Quanto il culto deve essere simile a ciò che si fa tutti i giorni e quanto deve essere altro?

Dalla tazzona di caffè, il discorso potrebbe essere allargato all’adeguatezza dell’abbigliamento (casual? formale? da festa?, sportivo? con le bermuda? sbracciati?, pantaloni o gonna per le donne?, ecc.) e più in generale della postura (svagata? vacanziera? annoiata? seriosa? solenne? “religiosa”?). Ogni volta che partecipiamo al culto lo facciamo a partire da un serie di considerazioni consapevoli o meno che dicono quale peso diamo al tempo del culto: esso è ordinario o straordinario? Comune o unico? Consueto o speciale? E ad ogni culto fissiamo il punto di equilibrio tra questi poli.

Nel leggere della diatriba su X innescata dal tweet di Piper, mi è venuto in mente un altro episodio che non ha a che fare col caffè, ma tocca il medesimo punto sensibile. Durante il covid, infatti, aveva fatto capolino una riflessione sulla “postura” al culto da remoto. In un tempo di riunioni su zoom, in cui si rimaneva a casa con poco stacco dalle attività domestiche, qualcuno aveva notato una eccessiva trasandatezza delle persone collegate: nella seduta rilassata, nell’abbigliamento pigiamesco, nel fare svogliato. Era consono al culto al Signore? Era un atteggiamento che rispecchiava la riverenza e il timore di cui parla la lettera agli Ebrei?

Questo per dire che non è tanto in gioco la pratica della tazzona di caffè in mano, ma il senso del culto che viviamo. Ogni volta che partecipiamo all’assemblea dei credenti riunita per celebrare il Signore, cosa stiamo facendo e come lo facciamo?