Abbattere il patriarcato? (I) Parliamone

 
 

Patriarcato: è la parola della settimana. Il recente caso di cronaca legato al femminicidio della ventiduenne Giulia Cecchettin ha smosso notevolmente l’opinione pubblica. Al di là dell’insistenza dei media sulla vicenda, la tragedia ha toccato i nervi scoperti della nostra società smuovendo la sensibilità di tutti. Il fatto, che ha visto coinvolti due ragazzi giovanissimi, è avvenuto in un ambiente che si definirebbe “normale”, lontano da contesti violenti, culturalmente arretrati e socialmente complicati. Il male si è insinuato tra le mura universitarie, dopo una cena in un fast food all’interno di un centro commerciale, fuori le rassicuranti villette familiari di un Veneto produttivo e lavoratore: tutti presidi della società contemporanea che riteniamo rassicuranti e immuni da catastrofi. E invece no. Proprio lì, anche lì, è esplosa la tragedia. 

Alla gogna è immediatamente finito il patriarcato. “Il patriarcato è l’unico colpevole dei femminicidi! È la società patriarcale l’humus nel quale crescono le tendenze omicide contro le donne! È lo Stato ad essere colpevole perché non si occupa attivamente di debellare il patriarcato! Gli uomini prepotenti uccidono le donne perché le ritengono oggetti di proprietà!”

Lungi dall’essere una posizione condivisa da tutti, sull’altro fronte si sono schierate posizioni quasi “negazioniste” rispetto all’esistenza del patriarcato. “Se ci fosse stato il patriarcato i ragazzi sarebbero più forti, saprebbero gestire i rifiuti! Nessuna società patriarcale prevede l’uccisione della donna! Ormai le donne sono libere, di cosa stiamo parlando?”

Ma è veramente solo questa la cornice di pensiero entro cui provare ad affrontare il problema? La questione è veramente solo limitata a capire se siamo o meno una società patriarcale? Negare gli squilibri di genere o pensare che superare la nozione di binarismo di genere sia la soluzione definitiva: sono gli unici due estremi a cui tendere? Sicuramente no e certamente neanche la soluzione di un compromesso a metà – che, a dire il vero, assomiglia di più alla società che abbiamo costruito in questi ultimi anni, - garantisce una soluzione. Al momento, dalle macerie dei movimenti di contestazione, delle lotte dei femminismi militanti e dalle rotture sociali degli anni ’60 e ’70, sembrano essere emersi, più che altro sistemi sociali, che si sono adattati alla via di mezzo, ad un compromesso che si regge su equilibri incerti e precari che generano confusione rispetto alle identità individuali.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati, intervistato su Avvenire, ha infatti parlato di una brace del patriarcato non ancora spenta sui cui fumi si innestano incapacità relazionali ed emotive, narcisismi patologici e cordoni ombelicali mai recisi. La mascolinità, così come la femminilità, allora sono in crisi fuori e dentro il patriarcato se non vengono vissute con regalità, cioè in modo guarito. C’è un brodo culturale avvelenato dentro cui personalità problematiche e vissuti tossici esplodono con violenza.

Se ne parla nelle chiese evangeliche? Sono argomenti trattati nei campi giovanili? Vengono presi in considerazione nelle attività giovanili? Esiste un pensiero evangelico che possa orientare e non solo balbettare gli argomenti conservatori o progressisti? Più radicalmente, le chiese evangeliche sono ambienti “patriarcali” dove vige una relazione gravemente asimmetrica e scompensata tra i generi? Sono cantieri di umanità in via di guarigione? Sono laboratori di riconciliazione e di fioritura delle persone piuttosto che di riproduzione degli squilibri della società?

Con una serie di articoli vogliamo provare a sfiorare il tema del patriarcato dal punto di vista della cultura evangelica.

(continua)