I cristiani sapranno essere minoranza? I cattolici forse no

 
 


Si sente dire da più parti che la macchina della cristianità è in crisi e che la sua forma istituzionale non fa più presa sulle masse. I numeri calano, le strutture create per la maggioranza si stanno svuotando e diventano simulacri di un tempo che non c’è più. Sembra che le chiese storiche non facciano altro che dover gestire il declino. Il futuro del cristianesimo (cattolico romano) occidentale e italiano sarà uno di minoranza? 


Da questo interrogativo parte il pamphlet di Ugo Sartorio, Cristianesimo di minoranza? Sul futuro delle comunità cristiane, Padova, Edizioni Messaggero 2025. L’autore è docente di teologia sistematica alla Facoltà di teologia cattolica del Triveneto. Dunque, la chiesa cattolica di domani sarà quella del “piccolo gregge” o della “diaspora”? 


Intanto, Sartorio sfiora alcuni nodi della crisi contemporanea. Non si tratta solo di secolarizzazione, ma di scristianizzazione della società. Meglio ancora: di esculturazione, di progressiva espulsione del cristianesimo dalla carne viva della cultura occidentale. Già nel 1977, Jean Delumeau si chiedeva sei il cristianesimo stesse per morire, dopo secoli di narrazione collettiva dominata dalla cristianità onnipresente anche se poco profonda. 


Altri come Maurice Bellet hanno sostenuto che il cristianesimo sta passando da essere materiale vivo della società ad un pezzo da museo di un passato prossimo e remoto. Alcuni si chiedono: siamo gli ultimi cristiani prima che l’indifferenza generale copra tutto? 


Riflettendo su questi interrogativi inquietanti, il prof. Joseph Ratzinger parlò già nel1970 del fatto che la chiesa (cattolica) sarebbe diventata “più piccola”, contrassegnata come “comunità della libera volontà”, “povera”, “interiorizzata e semplificata”: insomma, una “minoranza toccata dalla fede”. 


A questa visione si è contrapposto papa Francesco che, pur conscio del declino in atto, ha voluto rilanciare la visione propria del cattolicesimo di essere una “chiesa come realtà di popolo, aperta a tutti e a tutti destinata” (44).


Se queste sono le sfide, Sartorio valuta alcune proposte per gestirle: 1. l’“opzione Benedetto” (Rod Dreher), cioè la formazione di comunità, istituzioni e reti di resistenza fuori dal mondo. Essa è lontana dalla visione inclusiva e popolare di Francesco; 2. I quattro bivi di C. Theobald: la pastoralità accomodante; la riforma continua della chiesa in uscita; l’ecumenismo; la sinodalità. Si tratta di una svolta in linea con una interpretazione molto “cattolica” del Vaticano II; 3. Il futuro del cristianesimo europeo secondo Hans Joas in cui creare una realtà sovraconfessionale e inclusiva di tutti. 


Altre opzioni esaminate sono la “nuova evangelizzazione” di Giovanni Paolo II che mira a non darsi per vinti e a recuperare terreno rivendicando per il cattolicesimo istituzionale gli spazi perduti. Secondo l’A. questi tentativi muscolari tradiscono un ecclesiocentrismo problematico e vorrebbero far tornare indietro la storia, progetto anacronistico. 


La stella polare per l’A. è sempre papa Francesco e la sua visione del “popolo di Dio” in cui c’è spazio per “todos, todos, todos”: la chiesa per tutti anche se non di tutti (123). Qui sta il punto del discorso. Per l’A. la grande sfida è restare chiesa di popolo essendo pronti a ripensarne la forma (14), ma non a rimettere in discussione l’ecclesiologia sottostante. 


Questo è il dogma del cattolicesimo da cui anche le voci più lungimiranti con Ratzinger non si sono mai congedate: voler mantenere la concezione universalistica della chiesa a cui tutti sono destinati, senza onorare l’insegnamento della Scrittura secondo cui il popolo di Dio è formato dai credenti in Gesù Cristo, non da tutte le creature. Riappropriarsi della visione biblica della chiesa sarebbe la vera e salutare “riforma” per affrontare il futuro, che sia di minoranza o maggioranza, poco importa.