Fine vita, deficit di cultura della vita e della morte

 
 

Quando si tratta di questioni bioetiche in Italia, si entra sempre in un campo di vuoti legislativi, confusione burocratica e radicalizzazioni ideologiche. Il caso di Daniele Pieroni, uomo di 64 anni affetto da morbo di Parkinson da molto tempo, ricorso al suicidio assistito per la prima volta grazie a una legge regionale, ne è la prova. 

La Toscana è infatti l’unica regione italiana ad avere una legge che regola il suicidio assistito. Questo squilibrio legislativo è dovuto al fatto che nel 2019, dopo il caso Dj Fabo e le campagne legali e comunicative di Marco Cappato su tutti, la Corte costituzionale ha depenalizzato il suicidio assistito per casi specifici: 

  • Paziente consapevole e capace di prendere decisioni autonome

  • Patologia irreversibile

  • Sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili

  • Dipendenza da trattamenti di sostegno vitale


Nei casi in cui sussistono queste condizioni, il suicidio medicalmente assistito è depenalizzato. Nonostante ciò, il Parlamento finora non ha legiferato sulla questione e non esiste una legge nazionale sul fine vita. 


Questa crepa, insieme al fatto che le Regioni sono sempre più protagoniste e indipendenti rispetto ai sistemi sanitari, ha permesso alla giunta progressista toscana di prendere una decisione indipendente in merito e di attivare procedure proprie che non esistono in altre regioni italiane.

Vero è che il governo nazionale ha impugnato la legge proprio in materia di competenza ritenendo illegittimo per una Regione legiferare su un tema di rilevanza nazionale. 


In questa situazione di confusione amministrativa, intanto, lo scontro ideologico è sempre forte e polarizzato. Dalla fine degli anni 80, infatti, quando il tema del fine vita è tornato alla ribalta, lo scontro si accende tra una tradizione di stampo catto-conservatore che proclama la sacralità della vita sempre e comunque idolatrando il fattore biologico contro il fronte “progressista” che esalta la libertà di scelta individuale proclamando la piena disponibilità della propria vita per ogni individuo. 


In quest’ottica, anche le leggi su temi così importanti in Italia arrivano (o meno) come manifesti ideologici e di scontro contro l’altra parte politica. Una cultura del dialogo e dell’ascolto di altre voci sembra mancare e sembra che il cittadino non abbia altra scelta che schierarsi su uno dei due poli estremi. 


La voce evangelica italiana sul tema esiste e invita a tenere insieme più fattori e a guardare al tema con discernimento biblico. Il documento sull’eutanasia pubblicato dal Centro Studi di Etica e Bioetica nel 2003 (“Eutanasia”, Studi di teologia – Suppl. N. 1 [2003] pp. 2-12) infatti, suggerisce di superare la concezione sacrale/mistica della vita come dato biologico, ma anche di continuare a considerare l’eutanasia come un pericoloso pendio scivoloso verso la discrezionalità della morte e il suicidio come un non diritto. 


La saggezza biblica invita infatti a considerare la vita un dono, che sicuramente va preservata, ma che va anche considerata in vista della morte. La morte e l’accompagnamento alla morte dovrebbero essere quindi tema di discussione non tanto per decidere chi ha diritto di porre fine alla vita di un malato, ma in quanto possibilità di dare al morente effettiva dignità nel momento della malattia e della dipartita e di rispettare le sue volontà in un quadro relazionale più ampio. 


Sul tema, ad esempio, esiste anche il volume sul “Testamento biologico”, Studi di teologia – Suppl. 15 [2017]), che invita a riflettere sul testamento biologico, consenso informato e cura del dolore. In questo campo, infatti, la discussione si può aprire distinguendo le proprie posizioni da quelle pro-eutanasiche ma anche da quelle di matrice cattolica.


Accompagnare a una buona morte e disporre personalmente rispetto alle cure finali che si vogliono ricevere o meno significa infatti affrontare la morte con saggezza e responsabilità, senza ledere la dignità del malato e del morente ma anche senza arrogarsi il diritto di porre volontariamente fine ad una vita diventata “scomoda”.


Il caso Pieroni, infatti, invita a riflettere sui possibili scenari che il legittimare l’eutanasia sempre e comunque porterebbe. Quali sono infatti i trattamenti per sostegno vitale da considerare validi e quali no? Quando la sofferenza è considerata insopportabile? Va ricordato che nelle cronache risultano casi in cui questi parametri siano stati ritenuti validi anche per casi di depressione. Come distinguere casi di invito al suicidio e di pressione verso l’eutanasia? 


Pretendere di risolvere questi quesiti spinosi con una legge è caricare lo strumento legislativo di pesi che non può portare. D’altro canto, rimuovere il tema non potendone nemmeno parlare è un tabù che va superato. Ciò che è in gioco è la cultura della vita e della morte. Né la sacralità (cattolica) della vita, né la qualità (laica) della vita sono paradigmi adatti. C’è uno spazio importante per una cultura diversa. Sapranno gli evangelici interpretarla e darle voce pubblica?