Il Mosè di Netflix, la nuova frontiera della fluidità ecumenica?

 
 

Al di là del dialogo, del rispetto e della tolleranza, il nuovo Mosè, interpretato da Avi Azulay, nel docudrama promosso da Netflix, e già di discreto successo, sembra essere la nuova figura di riferimento dell’ecumenismo liberale e progressista. La sua storia, infatti, letta nel “segno dell’unità”, più che restituire la figura del patriarca, depotenzia il messaggio biblico e confonde lo spettatore sulla natura di Dio.

La miniserie si propone di percorrere in tre episodi la storia di Mosè partendo dalla sua nascita fino ad arrivare alla consegna delle tavole della legge da parte di Dio sul monte Sinai. La narrazione alterna spettacolari scene da film ad interventi di esperti americani delle tre grandi religioni monoteiste - cristianesimo, islam ed ebraismo - che riconoscono la figura di Mosè come grande profeta. 

Il pruno ardente, le dieci piaghe, la divisione del Mar Rosso e la lotta tra l’arrogante Faraone e il determinato Mosè costruiscono lo scenario epico, mentre teologi, storici e professori si alternano per dare una lettura della storia dell’Esodo che invita lo spettatore a considerare questi antichi eventi come ancora rilevanti per la società contemporanea e di ispirazione per la vita personale di ciascuno. 

La serie si concentra molto sulla personalità e l’intimità di Mosè restituendo, più che altro, la trama di un romanzo di formazione. Il bambino lasciato sulle acque del Nilo, adottato dalla figlia di faraone e alla ricerca della sua identità, vive da fuggitivo nel deserto per poi diventare profeta e liberatore del popolo israelita nonché promulgatore di una nuova legge.

I temi toccati sono innumerevoli: la disobbedienza civile delle donne che permettono la sopravvivenza di Mosè (la madre, le ostetriche, la sorella, la figlia di faraone); la giustizia sociale, la diversità e l’integrazione con la popolazione di Madian, la ricerca della propria identità, la liberazione dalla schiavitù di un popolo oppresso, il problema della leadership, persino un paragone tra Mosè e Martin Luther King e l’empowerment femminile delle figure forti che accompagnano questa storia.

In questo calderone dallo sfondo ecumenico e con una prospettiva progressista, la fede è un’appendice. Il rapporto di Mosè con Dio è complicato, come in effetti la Bibbia lo descrive, ma senza la storia di redenzione completa sullo sfondo. Il Dio rappresentato sembra un’entità prepotente, talvolta ingiusta, troppo severa con gli egiziani, incomprensibile e addirittura inaffidabile alla cui potenza l’uomo è sottoposto irrimediabilmente. 

Esempi di questa intrattabilità di Dio sono il popolo scelto ma poi abbandonato per 400 anni, la liberazione attraverso l’ubbidienza cieca ad un profeta sconosciuto, l’indurimento del cuore del faraone che permette la salvezza solo dopo molta sofferenza dei due popoli e infine un peregrinare infinito e tortuoso nel deserto. 

Nonostante Tom Kang, pastore di una chiesa non denominazionale di Los Angeles, e Peter Enns, docente in una facoltà di teologia liberale, avessero il compito di fornire la prospettiva cristiana su Mosè, in realtà hanno sorvolato sulla vera importanza di Mosè per il cristianesimo. Se infatti la storia di Mosè non punta a Cristo, resta solo una complicata storia di coraggio ed eroismo, ma nulla dice sull’effettivo piano di salvezza di Dio. 

Si parla dell’idolatria del popolo egizio, ma nulla si dice del peccato e della necessità della liberazione da esso. Volendo andare incontro ai diversi credi, si è perso tutto il significato di Mosè come tipo e figura di Cristo. Una sceneggiatura perfetta per un colossal Hollywoodiano, in realtà resta una storia piatta se non guarda alla vera liberazione, alla vera terra promessa e alla vera misericordia di Dio in Cristo.

In un’intervista ai produttori è emerso che il progetto nasce anche grazie ad un nuovo mercato basato sul rinnovato interesse del pubblico per i temi legati alla fede. Sembrerebbe che le incertezze dei nostri tempi conducano le persone a ricercare la spiritualità e a farsi domande. Le storie bibliche hanno una potenza intrinseca formidabile. Tuttavia, prodotti come questo, se si pongono solo l’obiettivo di appianare le differenze e creare un clima di tolleranza, non solo non danno alcun messaggio, ma svuotano il Vangelo della potenza per la salvezza di cui Paolo parla (Romani 1,16). Più che a Netflix, per incontrare Mosè bisogna tornare al racconto biblico.