La missione è una “fontana”. Spunti da un modello olandese

 
 

Come si sa, le metafore danno a pensare. Per questo mi ha colpito sentire parlare della missione come una “fontana”: una fontana come quella della Naiadi in piazza della Repubblica a Roma. Se ne è parlato nel corso di una settimana intensiva trascorsa in Olanda organizzata da Verre Naasten – letteralmente “prossimi-lontani” – organo missionario delle chiese riformate dei Paesi Bassi,

Alla base c’è una grande vasca della missione popolata da chiese, scuole teologiche, fondazioni, donatori singoli, organizzazioni missionarie di vario genere dal cui bacino vengono attinte risorse in termini di preghiere, incoraggiamento, soldi, ispirazione teologica, missionari e così via. Da questa vasca tutti insieme l’acqua viene spinta alla vasca superiore che è quella in cui sono collocate le chiese locali. Esse stabiliscono collaborazioni dirette con chiese e organizzazioni in tutto il mondo (la terza vasca) affinché la missione sia promossa capillarmente tramite chiese locali ed organizzazioni in tutto il mondo. La spinta missionaria fa zampillare l’acqua viva di nuove conversioni, fondazioni di chiese, crescita del popolo evangelico mondiale. Questa effervescenza fa tornare l’acqua giù, nella prima grande vasca della missione globale. Il movimento della missione può continuare.

Insomma, si tratta di un modello missionario circolare, anti-spreco, che si autoalimenta generando nuove risorse ed energie, dove tutti i soggetti sono allo stesso tempo datori e ricettori e dove non esistono vistose asimmetrie tra chi dà e va e chi riceve e accoglie.

Non è questo il modello con cui le missioni occidentali hanno operato nella loro storia. La stessa Verre Naasten per anni ha funzionato come la più classica organizzazione missionaria: formando missionari e mandandoli in paesi bisognosi di un’opera di evangelizzazione; per lo più Paesi in via di sviluppo e nel sud del mondo. Questo modello ha generato una sorta di colonialismo culturale. Un’analisi autocritica ha portato oggigiorno a ritenere questo modello se non insostenibile, quantomeno discutibile su diversi piani.

Non si tratta di un rinnegamento del passato e neanche di una visione radicalmente critica nei confronti del “modello classico”, unidirezionale di missione. Se nel passato non fossero mai stati inviati missionari, alcuni Paesi non sarebbero effettivamente stati raggiunti e gli apostoli per primi hanno inaugurato un modello di espansione del cristianesimo che prevedeva il viaggio in Paesi lontani.

Ancora oggi, in alcuni casi, non è una prassi che va rigettata a priori se si raggiungono luoghi privi di testimonianza. Eppure, essa deve essere analizzata criticamente. Verre Naasten ha fatto questa autocritica.

In primis questo modello sosteneva una macchina complicata, farraginosa e lenta con un’enorme dispersione di risorse. Non bisogna essere idealisti e ingenui anche quando si parla di sostenere l’avanzamento del regno di Dio: la missione ha un costo, non solo in termini di energie e lavoro, ma anche puramente economico! Mandare per lo più famiglie numerose in posti lontani e provvedere ai loro bisogni ha avuto un costo economico impattante. In termini di investimento, il tempo usato per imparare la lingua, la cultura, le usanze ha un costo elevato che secondo Verre Naasten non stava più portando risultati altrettanto fruttuosi. Non si tratta di essere sterili calcolatori, ma si tratta di amministrare in modo saggio le risorse che il Signore dona alla chiesa per ottimizzare e allargare il proprio raggio di azione.

In secondo luogo, i Paesi Bassi stanno facendo i conti con i risultati dell’essere stati per secoli una potenza coloniale forte. La nuova sensibilità contemporanea sta portando il Paese a fare ammenda per aver colonizzato Paesi sfruttandone le risorse, impoverendoli e imponendo modelli culturali nord-europei estranei a quelli delle popolazioni autoctone. La missione non si può identificare strettamente come un’opera di colonizzazione e i due movimenti non sono strettamente sovrapponili: tuttavia, non si può negare che una parte della storia missionaria abbia usato le strutture e le reti coloniali, abbia avallato questo modello e in alcuni casi lo abbia incarnato sovrapponendo il cristianesimo allo stile di vita occidentale generando una stortura nel senso di annuncio dell’evangelo.

Ammettendo le problematicità del colonialismo, bisogna anche denunciare le problematicità di questo modello di missione che oltre ad essere eticamente insostenibile, è pensato anche in maniera top-down dividendo il popolo di Dio in categorie di donatori/ricevitori. Progetti pensati in Occidente sono stati impiantanti in paesi asiatici o del continente africano senza tenere conto delle reali esigenze, dei contesti e senza considerare la capacità di questa parte del mondo evangelico di benedire a sua volta il mondo occidentale considerato già “cristianizzato”.

Questa idea non solo non è biblica, ma non è realistica e completamente insostenibile alla luce del fatto che l’evangelicalismo contemporaneo si muove molto di più e molto più velocemente nel Sud del mondo!

Questo modello non va pensato come una deresponsabilizzazione in cui ci si riduce a sostenere da lontano e senza troppo coinvolgimento qualche opera lontana, ma come la possibilità di collaborare in maniera più efficace per l’allargamento del regno di Dio in ogni luogo.

Il modello “fontana” andrebbe pensato anche per l’Italia. Chissà se le organizzazioni missionarie operanti da noi sarebbero interessate ad una lettura critica dei loro modelli e a farsi ispirare dalla “fontana”. Chissà se le chiese evangeliche italiane siano pronte a cambiare la cultura della ricezione soltanto per farla diventare una cultura della circolarità evangelica in cui, oltre a ricevere, si dà. Anche in Italia la missione deve uscire da modelli unidirezionali e scoprire la circolarità dove tutti danno e ricevono affinché l’acqua dell’evangelo zampilli nelle fontane delle chiese e irrighi la terra intorno a noi.