La stampa “prodiga”. Un appello per il giornalismo evangelico
Quando si parla di giornalismo, si ha la sensazione che i testi pubblicati invecchino velocemente. Soprattutto negli ultimi vent’anni tutto quello che conoscevamo del giornalismo si è trasformato e continua a cambiare.
Il declino della carta stampata, l’ascesa del digitale, i blog, i mini-video, i podcast, il potere dei social media, il cambio del mercato delle notizie … insomma, nel campo delle informazioni nulla somiglia al mondo che conoscevamo anche solo cinque anni fa. Quello che conosciamo adesso probabilmente non somiglia a quello che conosceremo tra cinque anni. Chi si accinge a scrivere un testo sul giornalismo vede il proprio lavoro diventare obsoleto velocemente.
Marvin Olasky, però, redattore esecutivo delle news di Christianity Today ed ex redattore capo di World News Group è tra i pochi ad aver scritto a più riprese testi sul giornalismo cristiano (inteso come evangelico). Nonostante la necessità di contestualizzarli al contesto italiano, molto diverso da quello americano da cui nascono, e alle tecnologie attuali, anche i suoi testi più datati offrono spunti interessanti per chi voglia approfondire il tema del giornalismo come vocazione e ambizione cristiana da perseguire.
Questo è il caso di un testo della fine degli anni ’80, poi rivisitato nel 2013: Prodigal Press. The Anti-Christian Bias of the American News Media. Già solo il titolo richiama ad un immaginario lontano da quello italiano, cioè la necessità di tornare ad un giornalismo convintamente di stampo evangelico.
In Italia, invece, il giornalismo cristiano è immediatamente ricondotto a quello cattolico fatto di settimanali diocesani, riviste popolari (Famiglia cristiana), quotidiani (Avvenire), ecc., oppure al gruppo di vaticanisti che seguono le vicende della Curia romana rendendo la definizione di giornalismo cristiano lontana da quella nata nel contesto americano.
Olasky, infatti, traccia una storia a grandi linee del giornalismo statunitense fino alla prima metà dell’Ottocento. Esso era di stampo cristiano di matrice protestante. Al giorno d’oggi, invece, il giornalismo evangelico ha bisogno di reclamare a gran voce una posizione nello spazio pubblico.
Questo scenario è ben diverso da quello italiano, dove la voce evangelica non ha mai avuto rilevanza nello spazio pubblico e l’aspirazione dovrebbe essere quella di crearne una che si faccia largo tra i media secolarizzati e politicizzati e quelli di stampo cattolico.
Olasky suggerisce una visione chiara di cosa sia il giornalismo evangelico. Non bollettini ecclesiali, non report o promozione delle attività evangeliche, e neanche lavoro teologico. Il giornalismo evangelico dovrebbe essere giornalismo vero e proprio ma con una forte e ancorata visione del mondo biblica.
Secondo Olasky, infatti, sono i presupposti che cambiano la cornice delle notizie. Nel corso del tempo, il razionalismo, il materialismo, il relativismo, l’universalismo e più recentemente anche la post-verità, sono state le correnti ideologiche a plasmare il giornalismo.
Questo significa che, quando ci informiamo, chi scrive presuppone che Dio non esista e che quantomeno non abbia rilevanza nelle cose che accadono quotidianamente, così come non esiste o non ha rilevanza il concetto di peccato e neanche di redenzione.
Questo bias anticristiano cambia radicalmente il modo di interpretare i fatti del mondo, di analizzarli e di comunicarli. Secondo Olasky, gli evangelici dovrebbero assolutamente avere una voce pubblica perché, per grazia di Dio, hanno una comprensione più articolata del mondo. Infatti, aver eliminato la realtà spirituale dal racconto della realtà non ha migliorato la qualità delle notizie, ma l’ha peggiorata.
Per Olasky un giornalismo cristiano che si rispetti è quello che riesce a inquadrare la realtà nel motivo creazione-caduta-redenzione-restaurazione e anche nella complessità del mondo. Esso restituisce al lettore un contesto chiaro in cui accadono le cose sotto la suprema sovranità di Dio.
Al contrario, i media cosiddetti secolarizzati finiscono per essere un elenco di fatti che si susseguono, spesso atroci che, sganciati da ogni cornice esistenziale, danno l’idea che, tutto sommato, si viva in una grande roulette russa priva di senso.
L’autore fa anche un excursus sulla chimera dell’oggettività nel giornalismo. Il concetto, oggi superato anche nel giornalismo secolare, per anni è stato il faro guida dai giornalisti: raccontare i fatti con oggettività. Olasky non suggerisce che il relativismo contemporaneo sia la risposta, ma che raccontare i fatti partendo da una visione del mondo ben definita e dichiarata sia necessario e utile per affermare con forza che il mondo in cui viviamo è quello creato da Dio e che tutte le cose sussistono in Cristo e per Cristo.
Come potrebbero le notizie che riguardano l’etica, la giustizia, la morale, ecc., essere riportate senza riferimenti biblici? In questo senso l’autore mette anche in guardia da uno pseudo-giornalismo cristiano fatto di versetti estrapolati dal contesto e appiccicati in malo modo a qualche fatto di cronaca. Strumentalizzare la Bibbia per scrivere della propria visione del mondo è diverso da scrivere del mondo attraverso una visione del mondo biblica.
Infine, il giornalismo cristiano dovrebbe offrire senza vergogna o timidezza una piattaforma per le cosiddette “crociate” giornalistiche. Al di là del termine poco felice, tutti i giornali portano avanti campagne ideologiche che rispettano le loro visioni del mondo.
Perché gli evangelici dovrebbero tirarsi indietro rispetto alla possibilità di avere una piattaforma per dare voce alle proprie posizioni sui temi della famiglia, del genere, dell’aborto, del fine vita e così via…che si differenzia da tutte le altre voci in campo?
Olasky fa un appello al giornalismo cristiano. Per noi italiani potrebbe suonare come un appello ad iniziare a mettere in campo idee, vocazioni, risorse per una presenza nei media che sia rilevante, così come le Giornate Teologiche tenutesi all’Ifed di Padova nel 2024 invitavano a fare.
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