Non fare un sito web per un matrimonio gay è reato? Sfide alla libertà religiosa in Occidente

 
 

Può una professionista del web rifiutare di fare un sito per un matrimonio gay a motivo delle sue convinzioni religiose? E’ questa la domanda che Lorie Smith, una web designer del Colorado, ha presentato alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Volendo sviluppare la sua attività nel campo degli annunci matrimoniali, Smith si è preventivamente preoccupata di accertarsi che scrivere come clausola che i suoi servizi, a causa della sua fede cristiana, non fossero disponibili per creare siti per matrimoni omosessuali, non diventasse un capo di accusa nei suoi confronti.

In Colorado vige una legge che vuole impedire che imprese come alberghi e ristoranti si rifiutino di servire clienti sulla base di discriminazioni etniche e razziali. Questa legge però è stata applicata per la difesa dei diritti LGBQT+, generando casi di pubblico interesse che dividono l’opinione pubblica e vedono i giudici in difficoltà nell’emanare giudizi. Smith ha scoperto che scrivere una clausola del genere sarebbe stato perseguibile in Colorado e ha quindi richiesto di poterlo fare sulla base del primo emendamento che protegge la libertà di religione, di parola e di stampa.

E’ notizia di qualche giorno fa che la Corte Suprema degli Stati Uniti abbia confermato a Smith che il primo emendamento della Costituzione americana protegge la libertà religiosa e di parola. Lei potrà svolgere la sua attività in base alle sue convinzioni religiose e quindi potrà inserire la clausola che non le impone di creare siti web per matrimoni omosessuali senza violare la legge.

Il tema del pluralismo culturale viaggia sempre più vacillante su una sottilissima linea di equilibrio dove, spesso accade di inciampare da una parte o dall’altra. Questo accade non solo negli Stati Uniti, dove un nuovo caso di cronaca ha spaccato l’opinione pubblica, ma anche in Europa e sempre di più in Italia.

Qualche anno fa era già successo che un pasticciere americano rifiutasse di vendere le sue torte per celebrare matrimoni omosessuali e festeggiamenti per transizione di genere, e finisse in infinite querelle giudiziarie.  

Smith ha vinto la causa, dopo sette anni di udienze, appelli e polemiche fuori e dentro i tribunali, ma la questione resta. Fino a dove un artigiano e un’impresa possono esercitare liberamente la loro professione? Dove diventano imposizioni culturali le campane LGBQT+? Si può imporre ad un creativo di usare il proprio lavoro per diffondere un messaggio che non condivide? Si può affidare alla magistratura ogni volta il compito di decidere cosa rientri nel campo della discriminazione e cosa nel campo della libertà religiosa e di pensiero?

Per il momento sembra ancora incerto e il terreno su cui ci si muove sempre più scivoloso. I movimenti LGBQT+ sembrano essere forti sul piano culturale nel far passare il messaggio che ogni disaccordo sia una discriminazione e un gesto d’odio. Sembra che lo spazio per la pluralità e il confronto venga soffocato e cancellato.

In Italia, questo discorso non è lontano. Nella scorsa legislatura aveva fatto discutere il ddl Zan, la cosiddetta legge contro l’omotransfobia, che aveva monopolizzato il dibattito pubblico, salvo poi essere accantonato.

Il mese di giugno, ormai rivendicato come mese del Pride, e cioè mese dell’orgoglio della comunità LGBQT+, è stato caratterizzato dalle polemiche sulla legittimità o meno del patrocinio dei comuni e delle regioni a queste manifestazioni. Lo scontro è stato feroce.

Intanto, per un mese intero siamo stati circondati da loghi di grandi o piccole aziende “arcobalenizzati”, investiti da servizi televisivi, report, riviste, giornali massicciamente impegnati a far passare il messaggio che il concetto di “inclusività” abbia qualcosa a che fare con l’abdicare ad ogni idea diversa e resistente all’ideologia gender.

“Ideologia gender” è un termine che viene deriso da chi in pratica la professa perché ritenuto appannaggio dei “conservatori retrogradi”, ma che in breve si riferisce a quell’ideologia sempre più diffusa che afferma che la sola norma per appurare cosa sia l’identità di genere, il sesso, l’orientamento sessuale e le scelte di vita sentimentale sia il sentire dell’IO interiore di ognuno.  

C’è un duplice piano d’impegno: da un lato assicurarsi che non vi siano effettive discriminazioni per le persone per quanto attiene ai diritti individuali; dall’altro rispettare il pluralismo sociale che prevede il diritto alla libertà religiosa e di parola per chi dissente o ha un’altra visione dell’identità personale. Vivere e diffondere l’insegnamento della Parola di Dio sul genere, la famiglia e la società non è equivalente a diffondere odio, discriminazione e intolleranza. In Colorado come in Italia la promozione di una società plurale è necessaria per impedire di cadere in una dittatura ideologica.