“Tutti, tutti, tutti”. La turbo-cattolicità di papa Francesco

 
 

“Tutti, tutti, tutti” è uno degli slogan rappresentativi del magistero di papa Francesco. Lo ha argomentato nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013); lo ha applicato alla fraternità universale nella dichiarazione del 2019 firmata con l’Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb; lo ha scolpito nel titolo e nel contenuto nell’enciclica Fratelli tutti (2020). Lo ha ripetuto quest’anno nel discorso pronunciato durante la Giornata mondiale della gioventù dell’agosto scorso a Lisbona.

Tutti, tutti, tutti. Se si vuole andare al cuore della visione di Francesco, bisogna fare i conti con questo slogan. Come fare? Un aiuto può venire da quanto scrive il gesuita portoghese Nuno Tovar de Lemos nell’articolo “Tutti, tutti, tutti. Accoglienza o relativismo nella Chiesa cattolica?”, La Civiltà cattolica 4162 (4/11/2023) pp. 276-289. E’ una riflessione interna al cattolicesimo e, ancor più, organica all’ordine dei gesuiti, lo stesso del papa. Nel cercare di indagare il significato di “tutti, tutti, tutti”, l’autore si chiede se siamo in presenza di un appello all’accoglienza o di un segnale di relativismo. Domanda legittima.

A corredo dell’espressione, Francesco spesso ripete che la chiesa non è una “dogana” che controlla che i documenti per entrare siano a posto. La chiesa non impedisce agli irregolari di entrare. Se lo fa, commette l’errore “clericale” che divide la gente in buoni e cattivi e seleziona gli ingressi in base a moralismi desueti. Per il papa, la chiesa è un “ospedale da campo” dove tutti sono accolti e curati, senza porre condizioni di ingresso alcune. 

Le metafore sono suggestive, ma cosa significano concretamente per la chiesa cattolica? Significa che l’eucarestia può e deve essere data a tutti, anche a quelli che vivono in situazioni di vita contrarie al tradizionale magistero della chiesa e fuori dalle prescrizioni previste dal Codice di diritto canonico? Significa che nessuno deve essere sfidato a cambiare ma solo accettato così com’è, senza aspettative di pentimento e conversione? Significa abbassare la guardia rispetto ai presidi morali e sociali quali il matrimonio monogamico, la castità, il genere maschile e femminile assegnato al concepimento? Significa accettare che ognuno continui a vivere come crede meglio?

Più radicalmente ancora, lo slogan “tutti, tutti, tutti” significa che siamo già tutti fratelli e sorelle e che, in virtù di tale fratellanza già in atto, tutti saranno salvati anche senza i sacramenti o fuori dai confini istituzionali della chiesa cattolica? Queste sono domande che, in ambito cattolico, vengono sollevate quando il “tutti, tutti, tutti” viene evocato da papa Francesco.

Nel soppesare il tutto, il gesuita portoghese risponde così: “L’insistenza di papa Francesco sull’accogliere “tutti, tutti, tutti” non significa alcun relativismo rispetto agli ideali. Questi rimangono intatti. Il Papa afferma che la Chiesa deve sapere accogliere tutti, ma non dice né può dire come ciò avverrà caso per caso”. Detto in altre parole (da quanto si può capire): la chiesa non cambia i suoi parametri teologici e sacramentali, ma questi ultimi non hanno più applicazioni conseguenti e predittibili: ciò che deve guidare la pastorale cattolica è il “caso per caso” e, come è noto, ogni caso è diverso nelle circostanze, nei tempi, nei soggetti. Quindi: non processi binari stabilizzati e codificati (dentro o fuori), ma percorsi individuali in cui niente è precluso in partenza. I filtri esistono ancora, ma non sono più decisivi. Il “tutti, tutti, tutti” mette in secondo piano il Catechismo e il Codice di diritto canonico.

Con Francesco, la chiesa mette il turbo alla cattolicità: “tutti, tutti, tutti” ne sono parte. Credenti, non credenti, diversamente credenti, cristiani, non cristiani, a loro modo cristiani, praticanti, non praticanti, diversamente praticanti. L’importante è che tutti, tutti, tutti siano inclusi. Ognuno, a modo suo, deciderà modi e tempi della propria partecipazione, ma il presupposto è che tutti ne siano già partecipi. Non sorprende che i cattolici abituati a pensare alla propria chiesa in termini di chiarezza dottrinale, univocità delle interpretazioni e prevedibilità delle pratiche siano perplessi di fronte alla casistica di papa Francesco che vuole la sua chiesa più cattolica che romana.