Cucina italiana patrimonio UNESCO. Saremo un Paese di pizzerie?

 
 

Il Colosseo illuminato, il Primo Ministro con il sorriso delle grandi occasioni, i media inondati con titoloni altisonanti: “primato nel mondo”, “migliore cucina”, “giornata storica”. Cosa è successo? L’UNESCO ha riconosciuto come proprio patrimonio la cucina italiana. Bene, un grande successo, anche se non dovevamo aspettare l’UNESCO per apprezzare il valore della cucina italiana.


In tutto il mondo l’Italia è associata alla sua cucina in tutte le sue varianti regionali. Dovunque si vada e con chiunque si parli, si sente dire che in Italia si mangia bene e che la cucina italiana è associata a gusto, varietà e qualità. Ora avrà anche il bollino UNESCO. È un riconoscimento che non rende la cucina italiana migliore, semplicemente prende atto di quello che è già da decenni patrimonio universale.


Tutto bene allora? Sì, ma. C’è un ma, non tanto nel testo della notizia e del fatto in sé quanto nel metatesto e nella prospettiva del modello di sviluppo implicito. Cioè: se la cucina diventa la cifra identificativa dell’Italia, al punto da sovrapporsi ad essa, ci sarà spazio culturale ed economico per lo sviluppo dell’Italia in altre direzioni produttive e culturali?


Se l’Italia è la sua cucina, ciò significa che diventeremo un Paese di ristoranti e pizzerie, ancor più di quello che siamo già? Mentre l’industria italiana chiude stabilimenti (vedi Torino), mentre la metalmeccanica arranca, mentre l’agricoltura fatica, mentre la tecnologia viene pensata e prodotta altrove, mentre gli investimenti sulla formazione, sull’innovazione e sulla ricerca si assottigliano, mentre la popolazione invecchia e tanti giovani qualificati lasciano il Paese, il comparto della cucina diventerà il settore trainante, se non l’unico in crescita?


Nelle città italiane, già si vede il fenomeno dei centri storici trasformarsi in luoghi ad alta concentrazione di B&B e di pizzerie. I laboratori artigianali, le botteghe, gli spazi di socializzazione, le librerie, ecc. lasciano il posto a rivendite per turismo e ristorazione di massa. È questa la prospettiva davanti a noi? Quella di diventare una meta turistica che offre servizi gastronomici a orde di turisti e diventare sempre meno competitiva in tutto il resto?


Lontano da me denigrare la cucina e il ricco mondo che ruota intorno ad essa. Cucina è cibo, cultura, storia, tradizioni, filiere, scambi, industria di trasformazione, comunità, ecc. Eppure, “non di solo pane vivrà l’uomo”, anche nel senso che un Paese non può vivere di cucina soltanto.

Non foss’altro che per questo principio biblico, la cultura evangelica deve farsi domande sulle prospettive a lungo termine di questo processo e sul modello di sviluppo ad esso associato.


Storicamente, l’Italia è arrivata tardi alla rivoluzione industriale anche perché povera di materie prime; solo nel Secondo dopoguerra si è avuto il boom economico con la crescita trasversale della sua economia. Per decenni, è stata comunque tra i Paesi più industrializzati e tra le economie più solide del mondo. Ora, sembra esserci una stagione involutiva che sembra far virare il Paese verso la gastronomia elevata a patrimonio dell’UNESCO. 


Il mondo globale è cambiato e l’Italia deve cercare il suo spazio (insieme all’Europa) tra i titani (USA e Cina) che fanno il bello e il cattivo tempo. Quello costruito negli ultimi 60 anni è in corso di erosione e non è più scontato. La cucina sembra essere la scorciatoia a portata di mano. Ma è quella che porterà più lontano e in modo inclusivo?


Sul Colosseo quadrato a Roma, Mussolini fece scolpire la celebre e controversa frase a proposito degli italiani: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. Dovremmo aggiungere: “e di pizzaioli?” (con tutto il rispetto per i pizzaioli).