Teologia del calcio, dalla creazione alla redenzione (passando per la caduta)
Non poteva che venire dal Brasile. Da dove altro uno si aspetta una teologia del calcio se non dalla nazione dove il “futebol” è una delle passioni che aggregano di più e che ha prodotto squadre memorabili e campioni come Pelé, Zico e Ronaldo (il brasiliano, non il portoghese)?
A scriverla è un pastore riformato che unisce fine competenza teologica e calcistica (lui è tifoso del San Paolo): Emilio Garofalo Neto, Futebol è bom para cristâo. Vestindo a camisa em honra a Deus, Brasilia, Editora Monergismo 2022 (2° edizione). Non a caso, nelle pagine introduttive, Garofalo è definito una delle “menti più argute” del panorama evangelico brasiliano e un esploratore della dimensione culturale della fede cristiana: impressione ampiamente confermata dalla lettura del gustoso volume.
Ammettendo con rammarico che sono pochi i teologi che si sono occupati del calcio (p. 23), l’autore segue la prospettiva riformata, nella fattispecie quella kuyperiana, che gli fornisce gli strumenti per analizzare teologicamente l’universo del calcio. In una noticina, ringrazia Abraham Kuyper (1837-1920) che, insieme a Johann Cruyff e Marco Van Basten, è tra i suoi olandesi favoriti (n. 6, p. 20).
Sbrigativamente, il calcio potrebbe essere ridotto ad una questione derubricabile al quarto comandamento (“è lecito giocare o andare a vedere la partita la domenica?”) o come occasione evangelistica (in occasione delle coppe del mondo). Sarebbe riduttivo trattarlo così.
Garofalo usa le categorie bibliche di “creazione, caduta/rottura e redenzione” per entrare nell’universo calcistico provando a leggerlo in chiave teologica. Innanzi tutto, il calcio è una sotto-creazione (invenzione) umana che risponde al mandato culturale divino di abitare la terra. In termini vantilliani, il calcio è un’area della vita in cui si esprime la “ricettività creativa” della cultura (p. 80). All’interno dello spazio creato dalla grazia comune, della creazione divina il calcio riflette in modo analogico le regole del gioco (scritte in un patto e fatte rispettare), la bellezza e le passioni suscitate, la ricerca dell’eccellenza agonistica (ma anche della forma della palla, dei colori delle maglie, dell’architettura degli stadi), il principio della rappresentatività (undici giocatori per una città o Paese), la diversità e l’unità delle squadre, l’enfasi sulla corporalità ma anche sulla strategia di gioco e il principio sabatico secondo cui la vita ha bisogno di momenti stacco (come il gioco). Il calcio è quindi “buono”, come la creazione di Dio lo è.
Il calcio è anche specchio della creazione rotta dal peccato. Esso diventa un ricettacolo di idolatria quando diventa un motivo di vita, richiede fedeltà assolute e denigrazione degli altri, incita alla superstizione. Garofalo cita come esempio di quest’ultima una spiegazione che era circolata in Brasile: sapete perché Baggio sbagliò il rigore nella coppa del mondo del 1994? Perché era buddista mentre il portiere del Brasile, Cláudio Taffarel, era evangelico (p. 50)! Ecco, nel calcio possono essere riciclate le cose peggiori: dagli scandali finanziari a quelli sessuali, fino alla violenza negli stadi. Il calcio è corrotto tanto quanto il resto della vita.
Eppure, il calcio è anche l’arena della redenzione. In esso si scorgono i segnali della trascendenza e l’ansia per l’eterno. Nel calcio c’è un premio e un trionfo finale accompagnato dalla sconfitta dell’avversario. Esso unisce la gente e crea legami innervati di celebrazione sabbatica. Nel calcio è anche possibile vedere la ricchezza della multiculturalità e delle differenze riconciliate delle etnie (si pensi, in particolare, a squadre come la Francia o l’Inghilterra). In un certo senso, nel calcio è visibile la “ricchezza delle nazioni”: il gioco totale olandese, il catenaccio italiano, la danza brasiliana, il tiki-taka spagnolo, il gioco virile britannico, ecc. sono tutte facce della svariata grazia comune di Dio. Ovviamente, il calcio non salva, ma si possono scorgere in esso ombre e luci del regno di Dio inaugurato da Gesù Cristo.
Insomma, andare allo stadio (i prezzi troppo alti dei biglietti sono forse una concessione alla dittatura peccaminosa degli interessi finanziari?) e tifare la squadra del cuore, giocare a e parlare di calcio non è peccato. Anzi. A patto che lo si faccia appassionatamente sì, ma sempre con moderazione cristiana.
P.S. il motivo per cui Baggio sbagliò il rigore a USA 1994 rimane un dolorosissimo mistero che neanche il libro di Garofalo risolve!