Testimoni oculari del Natale (III). I magi e la rivelazione che guida
Chi può parlare del Natale meglio di chi lo ha visto in prima persona? Perché non dare la parola ai testimoni oculari della nascita di Gesù? Con un esercizio di sana immaginazione, proviamo a farlo. Lasciamo raccontare a Giuseppe, a Elisabetta, ai magi e ai pastori il natale che testimoniarono, affinché attraverso il loro racconto esso si ravvivi e cambi la vita di molti.
La testimonianza di uno dei magi è basata su Matteo 2,1-12
Non dimenticherò mai quella notte in cui il cielo ci parlò. Io e i miei compagni eravamo uomini abituati a studiare e scrutare le stelle, a leggere i segni del cielo come altri leggono rotoli o leggi. La nostra vita era fatta di osservazione, calcolo e interpretazione. Eppure, ciò che vidi quella notte non si lasciava comprendere con la sola conoscenza umana.
Ero nella mia terra d’Oriente e da settimane avevo una sensazione particolare, una strana attesa di cui non riuscivo a comprendere. Non era solo studio; era come se il firmamento stesse trattenendo il respiro, come se qualcosa di grande stesse per accadere.
E poi, accadde. Una luce apparve fra le stelle: non una delle solite, non un pianeta che seguiva la sua orbita conosciuta. Era una luce nuova, viva, che non apparteneva alle mappe tracciate dagli antichi. Splendeva con una purezza diversa, come se ci stesse dicendo qualcosa di speciale. Da uomini di scienza, prima la osservammo, la studiammo e la confrontammo con altri fenomeni simili. Ma più la fissavamo, più capivamo che quella luce era diversa: si trattava di segnale, di un annuncio, di un invito a intraprendere un viaggio particolare. Ricordammo allora gli antichi racconti, le profezie che parlavano di un Re speciale, un Sovrano, un Redentore che avrebbe cambiato la storia. Noi magi sapevamo che quel momento era giunto.
Era come se il cielo dicesse: “È arrivato il momento tanto atteso”. Così partimmo, seguendo la stella. Non fu un viaggio breve né semplice: attraversammo deserti, città straniere, terre che non conoscevamo, ma la stella ci precedeva come una guida sicura, come un faro illuminato da una luce divina.
Quando finalmente arrivammo a Gerusalemme, il cuore mi batteva forte. Stranamente, parlando con le persone del posto, nessuno sembrava sapere ciò che per noi era così chiaro. Entrammo e domandammo senza timore: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.” Ricordo gli sguardi sorpresi e la confusione che le nostre parole suscitarono. Eppure, eravamo certi. Non avevamo attraversato migliaia di chilometri per errore. Sapevamo di trovarci nel posto giusto.
La notizia arrivò fino al palazzo di Erode. Il suo volto, quando ci incontrò, era quello di un uomo disturbato e irrequieto. Gli condividemmo della stella vista in oriente che ci aveva accompagnato fino al luogo della nascita di un re. Erode era consapevole che non stavamo parlando né di lui né di qualcuno dei suoi famigliari. Cercò di nascondere il turbamento dietro sorrisi e domande studiate, ma nei suoi occhi vedevo paura e rabbia.
I suoi sacerdoti e scribi consultarono le antiche profezie e confermarono ciò che avevamo compreso: il bambino sarebbe dovuto nascere a Betlemme. Erode ci disse di andare e cercarlo con cura, promettendo che anche lui avrebbe voluto adorarlo, ma era evidente che le sue intenzioni erano differenti.
Lasciammo Gerusalemme, sollevati dal non dover più sopportare lo sguardo inquieto del re. E quando uscimmo dalla città, la stella riapparve. Ci guidò ancora per breve tempo e quando si fermò, capimmo che eravamo giunti nel posto giusto. Entrati in un luogo modesto, difficilmente associabile alla dimora di un re, vedemmo davanti a noi un bambino. Era come tutti gli altri, eppure diverso da ogni altro. Niente troni, niente soldati, niente splendore. Eppure, nel profondo del mio cuore sapevo quello era il Re dei re. Il Re delle stelle che avevamo seguito. Il Re che il cielo stesso aveva annunciato. Il Re della scienza che per così tanto tempo aveva occupato le mie giornate.
Non parlai. Non serviva. Ci inginocchiammo davanti a lui. Uomini provenienti da terre lontane, studiosi, sacerdoti persiani, ora prostrati ai piedi di un bambino. Era un gesto che non si compiva davanti a chiunque. Era adorazione, sì, adorazione vera.
Aprii il cofanetto che avevo portato con me. L’oro brillò alla luce del piccolo ambiente: un dono per un re. I miei compagni offrirono incenso e mirra, simboli che avevano radici profonde nella nostra tradizione e che parlavano di divinità e di sofferenza, quella sofferenza, unica nel suo genere, che avrebbe patito per i nostri peccati.
Non credo che Maria o Giuseppe comprendessero appieno il significato di quei doni, ma Dio sì. E noi sapevamo che stavamo riconoscendo la dignità regale di quel bambino, la sua grandezza, la sua missione redentrice. Restammo ancora un po’, adorando Dio per la sua misericordia e grazia, resa tangibile da quel bambino tanto atteso.
Poi, mentre la notte avanzava, un sogno ci avvertì di non tornare da Erode. I miei sospetti erano stati confermati. La rivelazione che ci aveva guidato verso il Salvatore e Signore del mondo fu la stessa che ci protesse e ci guidò lontano dal pericolo. Così prendemmo un’altra via e riprendemmo il cammino verso la nostra terra. Da allora, ho guardato mille cieli e osservato mille stelle, ma nessuna ha più avuto quella luce.
Con il passare del tempo, compresi che quella luce che avevamo visto proveniva dallo stesso Dio che aveva toccato i nostri cuori rivelandoci la venuta del suo Messia. Grazie a quel segno divino, riuscimmo a trovare e a adorare il Re che nessuna altra mappa avrebbe saputo indicare. Un Re che nacque nella semplicità, ma che il cielo intero volle annunciare facendoci riconoscere, attraverso il segno della fede, la sua signoria su tutte le cose.
Della stessa serie:
“Testimoni oculari del Natale (I). Giuseppe e la rivelazione che rasserena” (17/12/2025)
“Testimoni oculari del Natale (II). Elisabetta e la rivelazione che rende umili” (22/12/2025)